Dietro ogni grande boss c'è una (grande) donna

di Teresa Santangelo, Lucia Coco e Virginia Ciancio

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Teresa Santangelo, Lucia Coco e Virginia Ciancio - Link Campus University, relatrice professoressa Daniela Mainenti

Cosa Nostra organizza le vite dei mafiosi dalla nascita alla morte ed in questo il ruolo della donna è centrale.
E’ importante porsi una domanda: chi insegna la cultura mafiosa ai figli con il padre spesso assente o latitante?
No, le donne, le madri, che creano nell’immaginario dei figli una figura di padre esemplare da imitare. È proprio la donna che insegna ai figli che prima di tutto vi è l’organizzazione mafiosa, all’interno della quale vi è ricchezza, potere: la madre inculca quegli ossimorici “valori negativi” a cui il figlio deve ambire.
Alle donne sin da piccole, infatti, viene inculcato che è necessario uccidere per vendicare la morte di un padre, un fratello o un marito. Esse si prostrano davanti le loro bare, ma saranno loro stesse ad ordinare una vera e propria vendetta di sangue. Le donne delle famiglie mafiose rappresentano, di fatto, il loro biglietto da visita con l’esterno.
Numerosi sono gli esempi nella storia mafiosa; indubbiamente dietro la violenza di Totò Riina, boss di Corleone e latitante dal 1969 al 1993, c’è stata Ninetta Bagarella. Il suo è un caso emblematico: cresciuta in una famiglia mafiosa, sorella di Leoluca Bagarella, killer e mafioso ha contribuito a radicalizzare un modus operandi et cogitandi  tale da pensare d’essere sempre nel giusto.  Non ha salvaguardato i figli pur di non tradire la cultura mafiosa, al punto tale che due di essi, uno addirittura alla pena dell’ergastolo, verranno poi condannati per associazione mafiosa.
Altra figura femminile rilevante in Cosa Nostra è stata quella di Giusy Vitale, sorella dei potenti boss mafiosi di Partinico Vito e Leonardo, che, dopo il loro arresto, prese il loro posto all’interno dell’organizzazione. Durante la latitanza dei fratelli fece da tramite per le loro relazioni. Nominata capo mandamento, organizzava omicidi e gestiva il denaro della famiglia. È stata, di fatto, la prima donna condannata per il delitto di associazione mafiosa dalla Procura di Palermo. Collaboratrice di giustizia all’età di 33 anni, venne ripudiata dalla sua famiglia; oggi, all’età di 40 anni vive con i figli sotto il programma di protezione testimoni, senza mai rinnegare il suo passato da criminale, ricusando l’appellativo di “pentita” ed affermando che il pentimento non avrebbe riportato in vita le persone da lei uccise.
Un’ulteriore figura di donna, certamente “di rottura” rispetto alle due summenzionate è stata sicuramente Rita Atria.  Figlia di Vito e sorella di Nicolò, esponenti della famiglia mafiosa di Partanna, uccisi dal loro stesso clan, nel 1991, all’età di 17 anni, si presentò spontaneamente dinanzi alle autorità giudiziarie, fornendo utili informazioni sugli affari e sulle dinamiche della cosca. Grazie a Paolo Borsellino riesce a collaborare, nonostante il ripudio da parte di madre e sorella rimaste fedeli al sodalizio, considerata da queste una “infame”.
Dopo la morte del giudice, qualche giorno dopo quel 19 luglio 1992, Rita Atria si suicidò buttandosi da un balcone di un appartamento a Roma in cui viveva sotto copertura, comunicando, con il suo gesto estremo, che la mafia aveva vinto contro lo Stato, e anche contro di lei.
Nessun compaesano partecipò ai  funerali della giovane, e anche in questa occasione verrà trattata con disprezzo dalla propria famiglia. Solo Michela Buscemi, prima donna ad aver testimoniato contro la mafia, fu tra coloro che portarono il suo feretro ai funerali ma, successivamente,
la stessa, costituitasi parte civile al maxi processo del 1986, revocò la sua costituzione nel processo a seguito una minaccia telefonica.
Malgrado, però, le donne, all’interno della famiglia mafiosa, siano l’anello di congiunzione con il latitante e garantiscano l’omertà o siano loro stesse ad organizzare omicidi e gestire il denaro, vi è poca parità tra uomo e donna – sia livello interno che giudiziale -; si è rilevato, infatti, che vengono comminate ad esse pene senza dubbio più lievi.
Da vittime a carnefici, infatti, da sottomesse a padrone del proprio destino, il ruolo della donna ha avuto una veloce evoluzione negli ultimi decenni e non solo nel modo in cui la società le vede, ma anche e soprattutto in termini di diritti, legge e sociologia.
Per lungo tempo le teorie criminologiche hanno preso in considerazione fattori sociali, biologici e personali, escludendo la differenziazione di genere e conseguentemente non concependo la figura della “donna criminale”.
Secondo questa vecchia prospettiva le donne erano considerate biologicamente e psicologicamente inferiori, paragonate in un certo senso ai bambini. Per questo motivo la devianza femminile non era considerata come un atto cosciente perché si pensava che le donne non fossero capaci di compiere atti o pensieri criminosi volontariamente, bensì che questi derivassero da una malattia mentale o addirittura possessione.
Caratteristiche come l’aggressività e la violenza giudicate prettamente maschili, non affini alla figura femminile che veniva perciò esclusa dalle indagini di polizia.
La partecipazione delle donne all’interno delle organizzazioni mafiose è così sempre stata ambigua.
Sulla base di questo errato assunto, le donne all’interno del gruppo criminale sono state idealizzate come “vittime inconsapevoli”, sottomesse e servili, ciecamente obbedienti al proprio uomo.
Solo da pochi anni la recente criminologia ha iniziato a vedere le figure delle donne come soggetti in grado di delinquere, superando l’antico dogma di donna moglie e madre.
Al contrario, le donne, all’interno delle organizzazioni mafiose, sono state in grado di agire indisturbate per molti anni, traendo vantaggio dal modo in cui la società le vedeva.
Di conseguenza, nei procedimenti penali, almeno fino agli anni '90, non fu contestata la partecipazione dell'associazione mafiosa o della collusione, ma la possibilità di favoreggiamento di conseguenza che, in presenza di un rapporto familiare, stava operando la causa di punibilità prevista dall'art. 384 c.p.
Emblematica è la sentenza emessa nel maggio 1983 dal Tribunale Penale di Palermo che non dispose le misure personali e patrimoniali contro Francesca Citarda, moglie e figlia di due boss, nonostante siano state riscontrate prove circostanziali, incluso il riciclaggio di denaro. Questa sentenza ha sollevato le organizzazioni femminili, perché stereotipi culturali e sentenze sottolineavano la condizione di sottomissione della moglie a suo marito, così come la condizione di ignoranza e inferiorità culturale, per escludere definitivamente la consapevolezza, in relazione alla natura illecita delle operazioni finanziarie effettuate, sebbene le fossero state date merci, società o altri beni e, nonostante la legge Rognoni-La Torre, permettendole di impadronirsi dei beni della mafia, estendendo le indagini anche alla famiglia.
Al contrario, al giorno d'oggi, le donne hanno iniziato a essere davvero coinvolte in un ruolo da protagoniste. Quando il boss (padre, marito, fratello che sia) è in prigione, le donne in effetti giocano un ruolo dominante e lo sostituiscono in tutto e per tutto. Di estremo interesse processual-penalistico, sottolineando come la Procura abbia compiuto un’evoluzione ed un’apertura nei confronti delle donne e del loro ruolo all’interno delle organizzazioni mafiose, il dato secondo cui soltanto nel 1996 venne applicato per la prima volta il regime del carcere duro disciplinato dall’art. 41 bis del c.p.p a Maria Filippa Messina. In Italia, poi, la prima donna condannata per reati di mafia è stata Anna Mazza, a capo della Camorra per quasi vent’anni.
Mentre la prima donna siciliana condannata per appartenenza a Cosa Nostra è stata invece Maria Catena Cammarata soltanto nel 1998. Le risultanze processuali hanno quindi svelato profili criminali assai strutturati con curriculum pieni di accuse tra le più gravi quali omicidio, tentato omicidio, estorsione ed associazione mafiosa. Donne sempre più frequentemente sottoposte al 41 bis come Nella Serpa, una vera e propria donna boss, capo cosca della ‘ndrangheta di Paola, Cosenza. Per non parlare di figure intimidatorie e violente di madri dell’area barese, come testimoniato dalle sequenze televisive della recente aggressione alla giornalista  RAI Maria Grazia Mazzola.
Dunque si è finalmente prospettata l’applicazione del regime del 41 bis anche per le donne mafiose.   Come è noto, il regime di carcere duro è fondato sulla necessità di isolamento dei detenuti con l’esterno onde evitare qualsiasi rapporto con altri esponenti mafiosi. Essi vivono in spazi ridottissimi, avendo a disposizione una sola ora d’aria giornaliera ed un colloquio al mese concesso con la famiglia. C’è, però, chi non ce l’ha fatta a resistere in queste condizioni, come nel  carcere delle Costarelle, l’Aquila, dove la detenuta Diana Blefari, non riuscendo a sopravvivere a tali restrizioni, si suicidò.  Qui le detenute vivono in condizioni estreme e in celle  dalle dimensioni molto ridotte.  Ecco che, a 25 anni dall’introduzione nel nostro ordinamento del regime di carcere duro della Legge 26 luglio 1975 n. 354, interviene la circolare n. 3676/6126 diramata il 2 Ottobre u.s. dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ai Provveditori Regionali e ai Direttori degli Istituti penitenziari. Tale circolare regolamenta la detenzione speciale affinché si garantisca l’uniformità di applicazione, evitando forme di arbitrio di carattere afflittivo.
Inoltre, come recita il testo, si definiscono “le modalità di contatto dei detenuti e degli internati sottoposti al regime tra loro e con la comunità esterna, con particolare riferimento ai colloqui con i minori; al dovere in capo al Direttore dell’istituto di rispondere entro termini ragionevoli alle istanze dei detenuti; la limitazione delle forme invasive di controllo dei detenuti ai soli casi in cui ciò sia necessario ai fini della sicurezza; la possibilità di tenere all’interno della camera detentiva libri ed altri oggetti utili all’attività di studio e formazione; la possibilità di custodire effetti personali di vario genere, anche allo scopo di favorire l’affettività dei detenuti ed il loro contatto con i familiari”.
Sicuramente una normativa più giusta, in attesa della riforma del sistema penitenziario, che si avvicini di più alla trasparenza e guardi al rispetto dei diritti umani.

2 commenti

  • W la donna !!

  • Ma chi se ne frega dei mafiosi o peggio delle mafiose, grandi donne? Sembra un’apologia della mafia. Contro il carcere duro?