Puglia, quella mafia negata ma molto imprenditrice

di Anna Piscopo

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Anna Piscopo - Università di Roma Tor Vergata. relatore professore Giuseppe Mennella, correlatore professore Michele Partipilo

Puglia: “porta d’Oriente”, terra dove il torpore della calura estiva avvolge le anime, madre della “quarta mafia”.  Dietro il volto di un paesaggio incontaminato, la Puglia è la prima terra per le operazioni di sbarco delle organizzazioni criminali dell’est e zona di confine con le con altre regioni controllate da ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra.
Anche se in ritardo rispetto alle altre regioni, la Puglia è stata costretta a svestire i panni di isola felix e mostrare se stessa: un territorio con forti potenzialità di sviluppo e con uno straordinario dinamismo economico e imprenditoriale spesso schiacciati dalle mafie. Che inquinano, inibiscono e continuano a servirsi di giovani leve, manovali della delinquenza lasciate allo sbando.
Le organizzazioni criminali pugliesi nate tra gli anni ‘70 e ‘80, in parte come filiazione della Camorra e accomunate sotto il nome di “Sacra corona unita”, hanno ereditato alcuni caratteri arcaici delle mafie tradizionali in un’ottica di innovazione e autonomia. (Palmieri 2013)
In Puglia colui che ha dato impulso alle formazioni delle varie organizzazioni è stato Raffaele Cutolo, ‘o professore. Evaso dal manicomio giudiziario nel 1979, il boss campano riunì una quarantina di capi di organizzazioni criminali pugliesi nell’Hotel Florio di Lucera (Fg): è l’embrione della Società, la mafia foggiana.
Inoltre, Cutolo pensa a una delocalizzazione delle attività criminali e alla creazione di una cellula come base operativa vicina a quella campana da cui pretende fino al 40% dei guadagni.
Ma questa richiesta finisce con il provocare una reazione da parte di alcuni gruppi, i quali si oppongono al disegno del boss. Uno di questi prende il nome di Sacra Corona Unita fondata da Giuseppe Rogoli. Inizia così a insediarsi il germe che porterà alla diramazione delle associazioni che percorreranno strade diverse ma parallele: la Famiglia Salentina Libera di Salvatore Rizzi, e a Taranto i fratelli Modeo aderirono alla Nuova Camorra Pugliese di Cutolo.
Ci sono voluti anni per arrivare a una definizione semantica e giuridicamente valida del fenomeno. Era il 1982 quando con la legge Rognoni-La Torre è stato introdotto nel codice penale l’art. 416-bis, secondo cui si è in presenza di associazioni di tipo mafioso “quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza intimidatrice del vincolo associativo”.
Mentre in una sentenza emessa dal Tribunale di Bari il 12 gennaio 1991 si legge:
[…] D’altra parte, per fortuna, non è che il nostro territorio abbia prodotto “cultura mafiosa” (almeno fino ad ora) anche se purtroppo il degrado sociale e, soprattutto, morale è tale da farne prevedere la possibile diffusione.
Tra scetticismo e tentativi di minimizzazione da parte di certe istituzioni, la Puglia si definiva come “regione a rischio” e territorio della “quarta mafia”. Nuovo polo della questione criminale che si aggiungeva alla mappa dell’antistato dopo il triangolo Sicilia, Calabria, Campania.
La mancata o debole azione di denuncia che ha riguardato non solo la Puglia, ma l’intero Paese, ha contribuito a consolidare le mafie e a renderle interlocutrici dei poteri locali e non solo. Di qui la necessità di considerare il radicamento del germe mafioso attraverso due livelli di analisi.
La posizione geografica della Puglia infatti gioca un ruolo fondamentale nello scacchiere internazionale. Le coste tirreniche, e oggi soprattutto quelle adriatiche, fungono da viatico per le attività illecite, tra cui contrabbando, riciclaggio, usura, traffici di droga, di armi e di immigrati contribuendo a definire i nuovi scenari del crimine organizzato.
Il secondo livello vede l’ampio territorio regionale sotto lo scacco dei diversi gruppi criminali che se lo contendono. Clan per lo più organizzati su base familiare, privi di una strategia unitaria ma spietati nel modo di esercitare il controllo. La frammentarietà delle cosche che emerge dalle relazioni della DIA (Direzione Investigativa Antimafia) fotografa tre “subregioni” con caratteristiche e peculiarità proprie: la terra di Bari, l’area foggiana e quella salentina, come si è detto compagine originaria della Sacra corona unita. A queste sono da aggiungere la BAT (provincia di Barletta-Andria-Trani) e Taranto, che da sola conta quasi venti clan.
Riciclaggio, traffico di sostanze stupefacenti, usura, legami con il settore dell’edilizia, del turismo, con lo smaltimento dei rifiuti: sono questi i maggiori canali di approvvigionamento dei gruppi criminali che, pur in mancanza di una struttura verticistica del potere, continuano a rigenerarsi e a dominare il territorio. Con la straordinaria capacità di adeguarsi al mutare dei tempi e delle condizioni.
Come nel caso del caporalato, fenomeno al centro dei fatti di cronaca per aver contribuito a far luce sui ghetti situati nel fazzoletto di terra tra San Severo e Rignano Garganico. Il lavoro nero che si muove nella zona d’ombra tra sistema criminale e illegalità fa della “mafia caporale” (Palmisano 2017) un sistema “liquido”, per usare un’abusata espressione di Bauman. Liquido non solo perché è capace di insinuarsi velocemente nel tessuto sociale, ma anche perché questa metamafia per restare in piedi ha bisogno di drenaggio di liquidi: di denaro. Che accumula sui salari di braccianti, camerieri, commercialisti, prostitute, blogger. Una mafia che esce allo scoperto non con i colpi di pistola. Quello con cui oggi ci si ritrova a fare i conti è un sistema intriso di miseria e corruzione, che assomiglia ai tentacoli di una piovra: ti corteggia, ti “sfotte”, e alla fine non ti lascia più andare.
Quello che ha caratterizzato la Puglia è stato un percorso in ascesa, da “criminalità negata” a “mafia imprenditrice”. Vero e proprio salto di qualità reso possibile grazie a politiche conniventi ed omertose alla base del sistema. Che non risparmia neppure l’informazione per piegare e orientare l’opinione pubblica. Le minacce, l’uso intimidatorio delle querele e delle cause per diffamazione che colpiscono i giornalisti che cercano di fare il proprio mestiere sono espressione di una legislazione che riporta evidenti falle. Terreno fertile per ostentare una libertà di stampa troppe volte soffocata. Non di certo aiutata dagli assetti proprietari “bordeline” dei giornali nelle terre di mafie e dalla precarietà dello status sociale degli operatori dell’informazione.
I dati forniti dall’osservatorio “Ossigeno per l’informazione” rilevano che negli ultimi otto anni in Puglia sono state ricevute duecento minacce, undici dall’inizio del 2018. In cima alla lista c’è la querela per diffamazione ritenuta pretestuosa seguita da lievi aggressioni fisiche e dagli insulti. Andrea Morrone, Marilù Mastrogiovanni, Luigi Abbate sono soltanto alcuni esempi di giornalisti a cui si è tentato di porre un bavaglio. E infine Maria Grazia Mazzola, giornalista Rai, aggredita, a febbraio di quest’anno, nel quartiere Libertà di Bari mentre cercava informazioni sul clan Strisciuglio dalla moglie del boss Lorenzo Caldarola.
Una battaglia culturale che necessita, oggi più che mai, di segnali in controtendenza affinché il crimine sia inteso come un grande problema etico, prima che economico e sociale. Per questo sta prendendo forma in questi ultimi tempi, a Bari, il Movimento Antimafia di Base. Obiettivo: restituire ai cittadini gli spazi privatizzati dalla criminalità organizzata. Con lo spaccio, con il controllo illecito e prepotente. Affinché le piazze del capoluogo pugliese tornino a risplendere del loro originario significato di “agorà sociale” e smettere di “puzzare” di mafia.

 

3 commenti

  • Silvia Persiani 31 agosto 2018 alle 11:04

    Estratto molto interessante. La Puglia, regione bellissima come del resto la Sicilia la Campania la Calabria, è per i più - a cui io appartengo- non troppo nota per il crimine organizzato, tanto che alcuni fatti di cronaca nera legati all’ambiente mafioso dello scorso anno sono apparsi quasi come fulmine a ciel sereno.

  • la frase rivelatrice e' sempre la solita : grazie a connivenze politiche.
    Perche' non viene resa OBBLIGATORIA l'aggravante mafiosa anche per i politici x=che aiutano i mafiosi?
    GA

  • Un tessuto economico sicuramente inquinato dalla presenza di gruppi malavitosi. Il settore turistico in primis, a seguire commercio ed Agricoltura. Non ne usciremo mai fuori.