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Riina junior, vita spericolata: 279 telefonate ai pusher

Le intercettazioni: «Ho dimenticato la bottiglia nella tua auto, me la porti?» Prima i contatti con gli spacciatori di cocaina di fiducia, poi i festini in casa

di Enrico Ferro e Cristina Genesin
2 minuti di lettura
L'abbraccio con il pregiudicato 

«Ho dimenticato la bottiglia di vino nella tua macchina, me la porti che non ho niente da bere? ». Sono le 21. 40 del 6 maggio scorso e Giuseppe Salvatore Riina telefona a un suo amico quarantacinquenne padovano. Ma l’oggetto della telefonata non è una bottiglia di vino, bensì una dose appena acquistata dallo spacciatore Ramzi Bellil. È solo una delle 279 telefonate che il terzogenito del capo dei capi di Cosa nostra ha fatto in pochi mesi ai pusher nordafricani. La condotta apparentemente impeccabile, così come viene descritta nelle relazioni, celava in realtà una seconda vita fatta di festini a base di cocaina, che lui organizzava chiamando in casa sua anche varie donne. Come la straniera che ha accompagnato a prendere il bus alle 5 del mattino, contravvenendo all’obbligo di rimanere in casa la notte previsto dal regime di libertà vigilata. Insomma, Salvuccio era ben lontano dalla vita tutta casa e volontariato che sosteneva di fare a Padova.



«Se arrivi entro le dieci scendo e vengo a prendere la bottiglia, sennò sali tu e me la porti» diceva sempre all’amico, pensando di beffare di beffare tutti. E qui la questione si fa complessa perché le cose sono due. O il trentanovenne di Corleone già condannato a 8 anni e 10 mesi per associazione mafiosa è una persona molto ingenua, oppure si sentiva in qualche modo intoccabile. Di certo non sapeva di avere alle calcagna gli uomini dello Sco (servizio centrale operativo) di Alessandro Giuliano.

Nell’informativa della Direzione distrettuale antimafia di Venezia ci sono intercettazioni telefoniche e ambientali, oltre che pedinamenti. E tutti i riscontri lo inchiodano alle sue responsabilità. Acquisti giornalieri di cocaina, uscite oltre l’orario consentito. Un bar dell’Arcella era usato come ufficio di ricevimento. Poi ci sono i due spacciatori di fiducia, Tarek Labidi e Ramzi Bellil, tunisini quarantenni.



Il 13 settembre scorso gli investigatori, appostati, lo osservano seduto al solito bar. Improvvisamente arriva Tarek. I due si guardano. Riina junior si avvia verso casa, dove probabilmente doveva avvenire lo scambio. I poliziotti bloccano il nordafricano nell’androne, che però nel frattempo riesce a ingoiare l’involucro con la droga. Lo portano in Questura. Quando viene rilasciato manda un messaggio a Salvuccio: «Tutto a posto».

Come se non bastasse ci sono gli incontri con pregiudicati corleonesi come Gaspare Mondello, il ragusano Gianni Belfiore e il cognato Tony Ciavarello che è marito di Maria Concetta.

C’è attesa per la decisione del magistrato di Sorveglianza di Padova, Linda Arata, sull’aggravio della misura di sicurezza nei confronti di Riina che rischia di finire in una colonia di lavoro. L’aggravio della misura è stato reclamato dal pm Giorgio Falcone nell’udienza di giovedì (ma il fascicolo d’indagine è nelle mani della collega Federica Baccaglini che lo ha ricevuta dalla Dda di Venezia). Cinque giorni è il termine (non perentorio) entro il quale il magistrato deve pronunciarsi. E 5 sono anche le colonie di lavoro attualmente attive dove potrebbe finire il figlio del boss, attualmente sottoposto alla libertà vigilata con una serie di prescrizioni su orari e frequentazioni tutt’altro che rispettate. Colonie che si trovano a Castelfranco Emilia, Vasto, Biella, Favignana, Saliceto San Giuliano. La destinazione sarà scelta dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Il legale di Salvatore Riina (l’avvocato vicentino Francesca Casarotto) ha sollecitato prescrizioni più stringenti e il prolungamento della misura senza entrare nel merito delle contestazioni indicate nella corposo rapporto della Dda.

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