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«Veneto Banca non era insolvente La Cei voleva fare un deposito»

Lo scorso anno i vescovi italiani pronti a versare in un conto dell’ex Popolare i proventi dell’8 per mille Lo rivela l’ex Cda nella memoria presentata in tribunale a Treviso: l’istituto era ancora attrattivo

di Sabrina Tomè
2 minuti di lettura

TREVISO. Veneto Banca non era in stato di insolvenza al momento della liquidazione e lo dimostra il fatto che tra i clienti ci fosse anche la Cei. Lo sostiene l’ex Cda (presidente Massimo Lanza) nella memoria depositata in tribunale a Treviso, in relazione all’udienza tenutasi il 23 marzo sulla dichiarazione di fallimento dell’istituto. La Conferenza Episcopale Italiana, viene precisato, aveva scelto l’istituto di Montebelluna per depositare i proventi dell’8 per mille; soldi che se fossero arrivati avrebbero determinato una preziosa iniezione di liquidità per l’ex Popolare. L’operazione non è poi andata in porto perché, pochi giorni prima del deposito, è intervenuto l’accertamento della «situazione di dissesto o rischio di dissesto» da parte della Bce. L’episodio viene ricostruito nella memoria firmata dal professor Lorenzo Stanghellini e dall’avvocato Paolo Gnignati, legali dell’ex Cda, e consegnata alla Sezione fallimentare del tribunale trevigiano prima dell’udienza. Essa verrà integrata entro venerdì da un’ulteriore relazione il cui obiettivo è dimostrare che al momento della liquidazione, la banca non era in stato di insolvenza, contrariamente a quanto sostenuto dalla Procura. Il punto chiave del dossier degli ex amministratori è che al 25 giugno 2017 l’istituto versava in una situazione finanziaria e patrimoniale tale da permettergli la continuazione dell’attività e da escludere il fallimento.

La liquidità. Una delle contestazioni della Procura di Treviso è che Veneto Banca non è riuscita a rimborsare il prestito obbligazionario subordinato in scadenza il 21 giugno 2017. Ebbene, replica l’ex Cda, tale prestito - pari a un residuo di 85,5 milioni - non è stato rimborsato per il semplice fatto che la scadenza era stata prorogata di alcuni mesi. Al 21 giugno, «l’istituto aveva in cassa liquidità superiore a 600 milioni di euro, ampiamente sufficiente al pagamento del prestito», si legge nella relazione. E anche se la situazione finanziaria dell’istituto era oggetto di un crescente deterioramento (a cui contribuivano le indiscrezioni apparse sulla stampa su un possibile intervento di risoluzione), l’ex Popolare «ha mantenuto una situazione di liquidità superiore ai requisiti regolamentari»; in ogni caso tale da garantire «ancora per diverse settimane la copertura dei flussi in uscita». Se poi l’emorragia finanziaria fosse continuata, rilevano i legali, l’istituto avrebbe potuto ricorrere a strumenti di liquidità di emergenza (tra cui l’Ela). A dimostrare la posizione di liquidità c’era inoltre il fatto che Veneto Banca aveva emesso obbligazioni garantite dallo Stato a febbraio e a giugno 2017. E c’è infine l’episodio dei soldi dei vescovi: «Un elemento rilevante ai fini della valutazione delle condizioni di liquidità», sottolineano i legali, «si riscontra nel previsto deposito di una somma ingente, superiore ai 200 milioni di euro, da parte della Cei». Si tratta, viene precisato, dei soldi dell’8 per mille. Il deposito non c’è poi stato «solo in quanto, pochi giorni prima che venisse effettuato, è intervenuto l’accertamento della situazione di dissesto o rischio di dissesto da parte della Bce». Una circostanza, questa, che standoall’ex Cda, conferma «la perdurante capacità della Banca di continuare ad attrarre depositi». Il versamento sarebbe stato effettuato non appena la Ragioneria dello Stato avesse reso disponibili le somme dell’8 per mille.

Il patrimonio. Gli ex amministratori sostengono che Veneto Banca possedeva inoltre, lo scorso giugno, un patrimonio netto positivo. Il 3 aprile 2017 Bce «aveva certificato» che l’istituto aveva «a quella data fondi propri sufficienti a garantire il rispetto da parte della stessa dei coefficienti patrimoniali minimi previsti dalla normativa prudenziale». Il 23 giugno l’Europa accerta il dissesto, con il mancato rispetto dei requisiti della normativa prudenziale, ma non vengono ravvisati perdita del patrimonio, sbilancio patrimoniale, illiquidità. Gli interventi di patrimonializzazione del Fondo Atlante a partire dall’agosto 2016, avevano raggiunto l’importo di 1,6 miliardi di euro. In definitiva: «Non esistono i presupposti per la dichiarazione dell’insolvenza»

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