Pachino, poliziotto moroso chiese l’intervento del boss Trasferito da Catania, nel suo passato alcune condanne

«Poliziotti non si diventa, si nasce. Chi indossa o ha indossato la divisa è come se avesse una seconda pelle». A condividere il messaggio su Facebook, a maggio 2016, è Lorenzo Scalisi, l’agente di polizia arrestato nei giorni scorsi nell’operazione che ha smantellato il clan mafioso di Pachino. Cinquantanove anni, originario di Catania, Scalisi è accusato di estorsione aggravata dal metodo mafioso per una vicenda che si sarebbe verificata tra ottobre 2015 e gennaio 2016. L’uomo, in servizio al commissariato di Pachino con il ruolo di assistente capo, avrebbe chiesto al capomafia Salvatore Giuliano di intercedere presso i proprietari dell’appartamento in cui viveva in affito. La coppia reclamava il pagamento della caparra e di tre mesi di affitto. Somma che però, pur ammontando a poco più di mille euro, non era stata pagata da Scalisi nonostante le ripetute promesse di saldare il debito. Una costante procrastinazione che aveva spinto i proprietari ad annunciare il proposito di presentarsi in commissariato per rendere nota la mancanza dell’agente. Un’evenienza che Scalisi voleva evitare a tutti i costi, compreso quello di chiedere al capomafia del posto di fare tacere i due creditori. 

«Mi ha detto che ha problemi con la padrona di casa, probabilmente non gli paga l’affitto». La voce è quella di Giuliano. È il pomeriggio del 20 ottobre 2015 e l’uomo si trova in macchina con Claudio Aprile, uno dei tra fratelli al soldo del capomafia. Che il riferimento di Giuliano sia a Scalisi, per i magistrati della Dda di Catania che hanno coordinato l’inchiesta, sta nel fatto che poco prima i due si erano incontrati nella sede dell’azienda agricola La Fenice, l’impresa che Giuliano ha creato poco dopo essere uscito dal carcere e di cui sono titolari ufficialmente il figlio Gabriele e Simone Vizzini, figlio di Giuseppe, il braccio destro del capomafia. A monitorare l’incontro tra Scalisi, che si presenta in divisa, e Giuliano sono anche gli uomini della Squadra mobile di Siracusa, che da un po’ hanno puntato gli occhi su La Fenice, sospettando che gli affari dell’impresa siano frutto delle attività criminali del clan. Il colloquio dura pochi minuti, forse,ipotizzano gli investigatori, anche perché i due si erano visti la sera prima in tutt’altro contesto. «Ieri mi è venuto a controllare», spiega Giuliano, alludendo, secondo gli inquirenti, al servizio svolto da Scalisi nell’ambito della libertà vigilata imposta in quel periodo dal tribunale al capomafia.

La richiesta dell’agente è accolta da Giuliano con riserva. L’uomo, infatti, ammette di non avere capito chi siano i padroni di casa di Scalisi e di volere prima appurare la loro identità per poi decidere se intervenire o meno. «Lorenzo, voglio vedere chi è e se io lo conosco. Se poi questi se ne vanno al commissariato e dicono che li ho chiamati io? Passi ancora più guai!», dice ancora Giuliano ad Aprile, ricostruendo un colloquio che precedentemente avrebbe avuto con l’agente. E in effetti i proprietari dell’appartamento, in commissariato, alla fine ci vanno davvero raccontando le inadempienze di Scalisi ai suoi superiori. I due però si rifiutano, per paura di ritorsioni, di mettere a verbale di essere stati avvicinati da Giuliano. Da parte dei vertici del commissariato intanto viene avviato un procedimento disciplinare che porterà, a novembre scorso, alla sospensione dal servizio di Scalisi.

L’assistente capo era arrivato a Pachino, in seguito a un trasferimento da Catania. Il cambio della sede operativa, stando a quanto ricostruito da MeridioNews, sarebbe avvenuto per via di una serie di guai con la giustizia che avevano visto protagonista il 59enne. Il casellario giudiziario del poliziotto d’altronde parla chiaro. Nel passato dell’uomo c’è più di una condanna definitiva: nel 1995 per il reato di tentata truffa, nel 2010 per abuso di ufficio, mentre l’anno successivo Scalisi viene condannato per furto e detenzione abusiva di armi. Inoltre, a suo carico, è ancora aperto un processo per rivelazione di segreto di ufficio e favoreggiamento della prostituzione. Procedimento a cui, se dovesse essere rinviato a giudizio, se ne aggiungerebbe un altro per avere chiesto i favori della mafia. «Rivela un profilo di pervicace infedeltà ai doveri istituzionali di appartenente alla polizia e di insensibilità alle pregresse condanne, elementi che rendono pericolosa la sua familiarità con esponenti di sodalizio mafioso», si legge nelle motivazioni con cui la gip Simona Ragazzi ha accolto la richiesta di custodia cautelare in carcere nei confronti di Scalisi.  


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