Prigionieri friulani e triestini nella Russia dei bolscevichi
Il libro di Marina Rossi “Nel vortice di due rivoluzioni” con il Messaggero Veneto Riaffiorano la memoria e l’esperienza degli internati nel vasto impero zarista
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Oggi sarà in distribuzione con il Messaggero Veneto (a 7 euro e 80 centesimi piú il prezzo del quotidiano) il libro della storica di Trieste Marina Rossi “Nel vortice di due rivoluzioni”.
di MARINA ROSSI
A cent’anni di distanza dagli eventi rivoluzionari di Russia, in un mondo in cui il predominio del capitale finanziario sembra avere spento ogni utopia mirante alla giustizia sociale, è importante infrangere la rimozione che ha pesato su quel fatale 1917. In particolare al confine orientale d’Italia la guerra fredda e i problemi interni al mondo comunista hanno messo in ombra la memoria e l’esperienza delle due rivoluzioni russe vissute direttamente dai prigionieri italiani, sloveni e croati internati nel vasto impero zarista. Altri silenzi hanno frenato fino a tempi recenti dell’era post-comunista la ricerca storiografica riguardante l’apporto dei partigiani sovietici, già prigionieri della Wehrmacht, alla Resistenza europea. Difficoltà di ordine politico non hanno consentito, agli studiosi, se non in rare occasioni, di rimarcare i rapporti storici di lungo periodo tra il confine orientale d’Italia e la Russia.
I rapporti storici tra il confine orientale e la Russia risalgono al XVIII secolo. Era l’epoca in cui la flotta dell’impero zarista, stanziata nel Mediterraneo, riforniva la cambusa nel porto franco triestino. Lo Stabilimento Tecnico Triestino ed il cantiere San Rocco di Muggia costruirono, tra ‘800 e ‘900, le navi da guerra per l’impero asburgico e per quello zarista.
Ma fu la Prima guerra mondiale a determinare rapporti esclusivi e peculiari, rispetto al resto d’Italia, perché i militari austroungarici italiani, sloveni e croati impegnati al fronte orientale furono testimoni diretti o presero parte attiva alla rivoluzione d’Ottobre. Nel Litorale le informazioni maggiori sulla rivoluzione furono riportate dal quotidiano socialdemocratico di lingua italiana “Il Lavoratore”, che vi dedicò una serie di editoriali dai titoli significativi ed emblematici come Il mondo è nostro e Conquistiamo la terra. Articoli e notizie di ogni tipo avrebbero innescato agitazioni e lotte di un’intensità e di un’ampiezza mai raggiunte in precedenza.
Nel gennaio 1918, una serie di scioperi politici collegavano idealmente il Litorale al movimento iniziato in Ungheria e negli stabilimenti dell’Austria inferiore, sotto la spinta d’un’organizzazione di tipo consiliare. Lottarono insieme, per rivendicazioni economiche e per una pace «a qualunque costo» operai, studenti, sottoproletari ed elementi inurbati del contado come Maria Rosa da Tomaj, accusata di aver guidato l’assalto a un forno. Gli ultimi a rientrare in fabbrica furono gli operai del cantiere San Rocco di Muggia, protagonisti di un clamoroso gesto di sfida all’autorità costituita: «Per noi la Russia sovietica era un emblema, un baluardo, e fu per commemorare la rivoluzione che Sterlin issò la bandiera rossa in cima al campanile». Quegli stessi operai avrebbero aderito con slancio ai moti del “biennio rosso” e non avrebbero esitato a entrare come volontari nei Gape nelle file della brigata “Zol”. Nel corso degli anni ’20 e ’30 dirigenti e semplici militanti comunisti della regione Giulia emigrarono in Urss per sfuggire alla condanna del Tribunale speciale e frequentarono, in molti casi, le scuole quadri di marxismo-leninismo di Mosca. Alcuni di questi emigrati, tra cui Vincenzo Bianco, sarebbero divenuti istruttori politici nelle scuole di antifascismo create dai sovietici nei campi di prigionia. Negli anni durissimi della collettivizzazione forzata gli emigrati d’origine italiana, residenti in Unione sovietica da qualche generazione, decisero di rimpatriare per non perdere la cittadinanza.
Diversi nuclei familiari si stabilirono nella nostra regione. Il rimpatrio divenne obbligatorio per gli ex-prigionieri austroungarici, che avevano preso moglie in Russia. Questi particolari cittadini del Regno furono costretti, insieme agli italiani e agli sloveni della Venezia Giulia, se in età di leva, a partecipare alle spedizioni del Csir e dell’Armir; a volte, furono utilizzati come interpreti dell’esercito italiano. Per molti comunisti italiani e sloveni, la partecipazione dell’Italia all’invasione dell’Urss fu vissuta come un evento tragico che confermava tutta la negatività del fascismo. La violenza del regime della Venezia Giulia era rivolta contro lo stato guida, emblema, per gli oppressi, di ogni speranza di riscatto sociale e nazionale.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
di MARINA ROSSI
A cent’anni di distanza dagli eventi rivoluzionari di Russia, in un mondo in cui il predominio del capitale finanziario sembra avere spento ogni utopia mirante alla giustizia sociale, è importante infrangere la rimozione che ha pesato su quel fatale 1917. In particolare al confine orientale d’Italia la guerra fredda e i problemi interni al mondo comunista hanno messo in ombra la memoria e l’esperienza delle due rivoluzioni russe vissute direttamente dai prigionieri italiani, sloveni e croati internati nel vasto impero zarista. Altri silenzi hanno frenato fino a tempi recenti dell’era post-comunista la ricerca storiografica riguardante l’apporto dei partigiani sovietici, già prigionieri della Wehrmacht, alla Resistenza europea. Difficoltà di ordine politico non hanno consentito, agli studiosi, se non in rare occasioni, di rimarcare i rapporti storici di lungo periodo tra il confine orientale d’Italia e la Russia.
I rapporti storici tra il confine orientale e la Russia risalgono al XVIII secolo. Era l’epoca in cui la flotta dell’impero zarista, stanziata nel Mediterraneo, riforniva la cambusa nel porto franco triestino. Lo Stabilimento Tecnico Triestino ed il cantiere San Rocco di Muggia costruirono, tra ‘800 e ‘900, le navi da guerra per l’impero asburgico e per quello zarista.
Ma fu la Prima guerra mondiale a determinare rapporti esclusivi e peculiari, rispetto al resto d’Italia, perché i militari austroungarici italiani, sloveni e croati impegnati al fronte orientale furono testimoni diretti o presero parte attiva alla rivoluzione d’Ottobre. Nel Litorale le informazioni maggiori sulla rivoluzione furono riportate dal quotidiano socialdemocratico di lingua italiana “Il Lavoratore”, che vi dedicò una serie di editoriali dai titoli significativi ed emblematici come Il mondo è nostro e Conquistiamo la terra. Articoli e notizie di ogni tipo avrebbero innescato agitazioni e lotte di un’intensità e di un’ampiezza mai raggiunte in precedenza.
Nel gennaio 1918, una serie di scioperi politici collegavano idealmente il Litorale al movimento iniziato in Ungheria e negli stabilimenti dell’Austria inferiore, sotto la spinta d’un’organizzazione di tipo consiliare. Lottarono insieme, per rivendicazioni economiche e per una pace «a qualunque costo» operai, studenti, sottoproletari ed elementi inurbati del contado come Maria Rosa da Tomaj, accusata di aver guidato l’assalto a un forno. Gli ultimi a rientrare in fabbrica furono gli operai del cantiere San Rocco di Muggia, protagonisti di un clamoroso gesto di sfida all’autorità costituita: «Per noi la Russia sovietica era un emblema, un baluardo, e fu per commemorare la rivoluzione che Sterlin issò la bandiera rossa in cima al campanile». Quegli stessi operai avrebbero aderito con slancio ai moti del “biennio rosso” e non avrebbero esitato a entrare come volontari nei Gape nelle file della brigata “Zol”. Nel corso degli anni ’20 e ’30 dirigenti e semplici militanti comunisti della regione Giulia emigrarono in Urss per sfuggire alla condanna del Tribunale speciale e frequentarono, in molti casi, le scuole quadri di marxismo-leninismo di Mosca. Alcuni di questi emigrati, tra cui Vincenzo Bianco, sarebbero divenuti istruttori politici nelle scuole di antifascismo create dai sovietici nei campi di prigionia. Negli anni durissimi della collettivizzazione forzata gli emigrati d’origine italiana, residenti in Unione sovietica da qualche generazione, decisero di rimpatriare per non perdere la cittadinanza.
Diversi nuclei familiari si stabilirono nella nostra regione. Il rimpatrio divenne obbligatorio per gli ex-prigionieri austroungarici, che avevano preso moglie in Russia. Questi particolari cittadini del Regno furono costretti, insieme agli italiani e agli sloveni della Venezia Giulia, se in età di leva, a partecipare alle spedizioni del Csir e dell’Armir; a volte, furono utilizzati come interpreti dell’esercito italiano. Per molti comunisti italiani e sloveni, la partecipazione dell’Italia all’invasione dell’Urss fu vissuta come un evento tragico che confermava tutta la negatività del fascismo. La violenza del regime della Venezia Giulia era rivolta contro lo stato guida, emblema, per gli oppressi, di ogni speranza di riscatto sociale e nazionale.
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