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A cinquantadue gradi sotto zero svanì l’Armata italiana in Russia

Settantacinque anni fa sul fronte del Don i sovietici avviarono l’offensiva denominata Piccolo Saturno La testimonianza del triestino Guido Placido, classe 1921. In centomila non tornarono

2 minuti di lettura
La fine del 2017 non può essere ricordata nella cronaca della storia solo per i cento anni dalla Rivoluzione russa o dalla disfatta di Caporetto. Russia e disfatta infatti si coniugano con un altro evento tragico che ha riguardato l’Italia, il 16 dicembre di 75 anni fa.

«Solo a piedi, sempre a piedi, con un freddo terribile», ricorda ancora oggi l’allora giovane sottotenente della divisione Ravenna Guido Placido, triestino, classe 1921, che visse in prima persona il dramma dell’annientamento dell’Armir, l’Armata italiana in Russia, sul fronte del Don, mentre poco più a sud si stava sviluppando la battaglia di Stalingrado. Nelle prime ore del 16 dicembre 1942, i sovietici dettero avvio sul Don all’offensiva denominata “Piccolo Saturno” che contrappose all’8ª armata italiana (accanto agli italiani anche truppe tedesche, croate e rumene) ben quattro armate sovietiche, di cui una corazzata. Gli italiani potevano contare su 230 mila uomini con 55 carri armati leggeri e 1.600 cannoni; di fronte una massa di 425 mila soldati, quasi 1.200 carri armati, ben cinque mila tra cannoni e mortai. I russi sfondarono sul fronte della Cosseria e della Ravenna, coinvolgendo poi le divisioni della Pasubio, della Torino, della Sforzesca, della Celere, della Cosseria e della Vicenza. Sul Don resistette ancora, non attaccato direttamente, il corpo d’armata alpino, che ricevette l’ordine di ripiegare appena a inizio ’43, quando ormai era circondato dalle truppe sovietiche che avevano sfondato a nord e a sud e che avevano già accerchiato le altre divisioni.

Il 16 dicembre del ’42, che sviluppò forse la sconfitta più grave e tragica del Regio esercito italiano, portò allo smembramento dell’intero Armir, che si dissolse tra la ritirata verso Ovest e le cosiddette marce del davai (avanti, in russo), a piedi, su piste ghiacciate, uccisi se non si riusciva a tenere il passo della colonna, verso terribili campi di prigionia. Tra i più fortunati proprio Guido Placido, che dopo aver resistito sul Don al comando di una sezione mortai, grazie al fatto che il suo caposaldo era stato attrezzato con una delle poche radio riceventi in dotazione («gli altri si dovevano accontentare di telefoni da campo», che furono subito interrotti dai russi, racconta Placido) ricevette l’ordine di ripiegamento. «Parecchi di noi - racconta - completamente sfiniti, si accasciarono al suolo senza poter essere soccorsi in mezzo a quella tragedia resa più spaventosa da un clima gelido e micidiale. Nel paese di Filonovo - annota Placido - sempre sotto attacco, si formò una lunga colonna di uomini. Mi trovavo verso la fine di questa colonna e nel cuore della notte, con la neve, sotto i colpi dei russi, senza orientamento, e con altri commilitoni prendemmo una pista diversa dalla massa. Fu la nostra fortuna, mia e di qualche decina di altri soldati: la colonna costituita da gran parte dei fanti della Ravenna venne fatta prigioniera, noi riuscimmo ad arrivare all’abitato di Kusmenkoff, e da qui con uno degli ultimi autocarri rimasti, raggiungemmo Millerovo: era il 20 dicembre».

Le divisioni alpine furono le ultime a lasciare il Don e per loro la ritirata si concluse invece a fine gennaio, dopo un calvario durato settimane tra combattimenti, congelamenti, feriti lasciati a morire nella steppa e migliaia di morti. In centomila non tornarono dalla Russia, caduti negli scontri e negli stenti della ritirata, nel corso delle marce del davai e nei terribili lager sovietici: «Nel campo di prigionia di Suzdal abbiamo provato cosa significano 52 gradi sotto zero», ricordò non molti anni fa al tempio di Cargnacco, vicino Udine, dove riposano i resti di 8 mila soldati morti in Russia, un allora giovane sottotenente della divisione Pasubio, fatto prigioniero sul Don (ferito alle gambe), proprio il 16 dicembre 1942.

Si calcola che furono fatti prigionieri oltre 64 mila soldati: di questi, nel 1945 e nel 1946 (gli ultimi ufficiali furono rilasciati però solo a metà degli anni ’50), ne tornarono 10.032. Nel solo famigerato campo di Tambov, che ospitava 23 mila prigionieri, da fine 1942 al giugno 1943 rimasero in vita 3.400 soldati; di 7 mila alpini della Julia ne sopravvissero 1.200.

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