La Sistina del Friuli senza più custode, ora la chiesa incustodita è a rischio
Sant’Antonio è un capolavoro del 1300, di impianto gotico, con un affresco del Pellegrino e sullo sfondo San Daniele. Il parroco don Marco Del Fabro rivuole le chiavi dal Comune dopo il ritiro del vigile volontario
SAN DANIELE. «Come sarebbe che il volontario non apre e richiude la Chiesa di Sant’Antonio? Dal Comune nessuno mi ha avvertito che ha restituito le chiavi! Me le facciano avere al più presto, visto che ne esiste una sola».
Don Marco Del Fabro, parroco di San Daniele dal 2002, ha appreso con grandi stupore e incredulità la notizia che da più di un mese l’anziano che si è sempre occupato di rendere accessibile la chiesa di via Garibaldi non è più “in servizio”.
A denunciare il fatto che uno dei gioielli del centro storico della cittadina collinare fosse aperta 24 ore su 24 uno dei residenti della piazza, Carlo Zardi, che, dalle pagine del nostro giornale, ha lanciato l’allarme.
Come confermato anche da alcuni avventori dei locali di via Garibaldi, da alcune settimane la porta principale della chiesa realizzata agli inizi del 1300 è sempre aperta.
«A tarda sera – ci aveva confermato il signor Zardi – ho trovato la porta aperta e, visto che mi pareva una cosa poco sicura, l’ho accostata in modo che non fosse evidente il fatto che la Chiesa fosse aperta».
Come spiega don Marco, prima del suo arrivo nel 2002, c’era stato una sorta di accordo tra l’amministrazione comunale e un volontario che si era impegnato a effettuare il servizio. Per questo l’anziano, nell’impossibilità di continuare i propri servigi, ha restituito la chiave proprio agli uffici di Villa Serravallo.
La proprietà dell’immobile è della parrocchia di San Michele Arcangelo e la manutenzione, nell’ambito di una collaborazione tra Comune e Parrocchia, è a carico del Comune: fu il Comune a realizzare, qualche anno fa, l’intervento di restauro della copertura dell’immobile.
Ma sul fatto che le chiavi siano state rese agli uffici comunali, nemmeno gli amministratori ne sono a conoscenza: «Non sono stata informata della riconsegna delle chiavi – ha fatto sapere il vicesindaco Consuelo Zanini -. Verificheremo con monsignor Del Fabro come gestire la situazione».
Per don Marco la cosa non è complicata: «Troveremo qualcun altro che effettui il servizio. Ma il Comune mi dia le chiavi: sono io il responsabile dell’immobile». Lo stesso don Marco, dall’anno del suo arrivo, si era assicurato che le chiese della città potessero rimanere sempre aperte al fine di poter permettere a chiunque, durante il giorno, d
i entrare per una preghiera. E per la chiesa di Sant’Antonio, pur non venendo celebrata la messa, vige, dunque lo stesso criterio. Non solo: essendo un edificio sacro, sono limitatissimi gli eventi che si tengono al suo interno. Rispetto agli altri santuari poi, quello di Sant’Antonio, si distingue per il grande pregio storico-artistico.
«Un gioiello», come conferma lo storico sandanielese Angelo Floramo. «Si tratta di una chiesa nata da una Fraterna per l’assistenza ai malati e ai pellegrini. La Fraterna della Chiesa di Sant’Antonio era quella di Sant’Antonio di Vienne in Francia».
«L’anno della consacrazione è il 1309 – ricorda ancora Floramo –; quindi siamo in ambito gotico. Risale a molto più tardi la facciata esterna conclusa entro la prima metà del ‘400, compresi i fregi del portone con intitolazione a Sant’Antonio di Padova e di Vienne e a San Giacomo. All’interno vi sono cicli di affreschi stratificati molto interessanti anche se bisogna aspettare la fine del 1400 per l’inizio del capolavoro: il Pellegrino da San Daniele comincia alla fine del 1400 e conclude nel 1522 la rappresentazione della crocifissione con, nella parte retrostante, la raffigurazione di San Daniele».
«Il pregio – spiega ancora Floramo - sta dunque non solo nella fattura e nei cromatismi, ma nel fatto che si rapporta l’arte all’identità vicina». Un affresco che è valso alla chiesa sandanielese il soprannome di “Sistina del Friuli” e che ogni anno viene visitata da migliaia di visitatori: «I beni di questo tipo – commenta Floramo – appartengono all’intera comunità: è la comunità, infatti, che li ha ricevuti e che li deve tutelare e proteggerli per chi verrà».
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