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Giustizia, amore, libertà l’eredità di un leader per un futuro di pace

Cinquant’anni fa l’assassinio a Memphis del grande predicatore Il reading a Udine sul suo ultimo discorso alla vigilia di Pasqua

di VALERIO MARCHI
2 minuti di lettura

Martedì 3 aprile, alle 18, alla biblioteca Joppi di Udine, Romano Vecchiet introdurrà Valerio Marchi (narrazione), Alessandra Pergolese (letture) e Diego Perotti (brani musicali) per ricordare Martin Luther King a 50 anni dalla scomparsa. L’articolo ripercorre il canovaccio della rappresentazione.

di VALERIO MARCHI

Il 4 aprile 1968 Martin Luther King moriva in un attentato a Memphis, Tennessee. A soli 39 anni aveva già fatto la storia, e avrebbe continuato a farla: quattro anni prima gli era stato assegnato il Nobel per la Pace; venticinque anni dopo, il presidente Reagan avrebbe firmato l’istituzione del “Martin Luther King Day”.

Un altro uomo era venuto “in nome dell’amore” (“in the name of love”: così canteranno gli U2 vent’anni dopo l’assegnazione del Nobel a King) e anche lui era stato ucciso. Un altro strano frutto americano (“Strange fruit”, aveva denunciato per lunghi anni, in una canzone capolavoro la grande Billie Holiday), mentre dal pinnacolo della Libertà pendevano migliaia di corpi di “negri” linciati e la giustizia si riduceva, non di rado, a uno sporco gioco razzista: lo dirà senza mezzi termini anche Bob Dylan nel 1975, sostenendo la causa di Rubin “Hurricane” Carter, il pugile nero ingiustamente condannato per omicidio una decina d’anni prima con la scandalosa sentenza di una giuria di soli bianchi.

Il giorno prima di morire King, nel suo ultimo discorso, annunciava l’ora decisiva per fare dell’America quello che avrebbe dovuto essere, e disse che ormai la scelta non era più tra violenza e non violenza: o sarebbe stata non violenza, o non ci sarebbe più stata esistenza. Erano giorni di sfide formidabili, che richiedevano fede e determinazione incondizionate contro la segregazione, la povertà, la guerra. E King aggiunse che il suo destino personale non aveva importanza: aveva vissuto dicendo che il coraggio affronta la paura e la domina, che un uomo che non sia disposto a morire per qualcosa non è pronto a vivere, e che Dio lo aveva portato sulla vetta della montagna (“I’ve been on the mountain top”) e da lì gli aveva additato la terra promessa della giustizia, dell’amore, della libertà. Giustizia: perché la vera pace non è solo assenza di tensione, ma realizzazione della parità dei diritti e riconoscimento della dignità di tutti. Amore: un potere eterno, antico come l’etica di Gesù e moderno come il metodo di Gandhi. Libertà: quella che gli oppressori non concedono spontaneamente, ma che gli oppressi devono sempre rivendicare, preparandosi a pagare un prezzo.

Mentre si combatteva in Vietnam, King dichiarava “guerra” alla guerra, e forse fu proprio questa la scelta che decise il suo tragico destino: anche lui, a modo suo, fu “un ragazzo che come noi…”, come cantava Morandi. “Perseguire fini pacifici con mezzi pacifici”: ecco, in sintesi, il programma di King, pienamente convinto che la nonviolenza, lungi dall’essere l’arma dei vigliacchi, è invece una forma di eroismo. Resistendo al male senza aggredire l’oppositore, si agisce prima sui cuori di chi la pratica e poi si conquista la coscienza altrui, favorendo la riconciliazione. Perché nessuno può farcela da solo: il bianco è parte del nero, il nero del bianco; l’agonia dell’uno sminuisce l’altro, la salvezza dell’uno innalza l’altro.

King sapeva bene che i sogni infranti sono il marchio della nostra vita mortale. Tuttavia, non smise mai di sognare: “I have a dream”… e sognò che un giorno, proprio dove infuriava il razzismo più feroce, le bambine e i bambini di colore potessero prendere per mano le bambine e i bambini bianchi, per camminare assieme come fratelli e sorelle. Rifiutò di rassegnarsi all’idea che l’umanità dovesse rimanere incatenata alla notte senza stelle del razzismo e della guerra, e che l’alba radiosa della pace e della fratellanza non potesse mai divenire realtà.

La pensava così anche Joan Baez, che accompagnava il cammino di King e dei diritti umani e civili cantando “We shall overcome”: ce la faremo.



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