Rientrano in Friuli dalla Cina stregati dagli ulivi di Aonedis
Angela Moroso e Paolo Paternoster guidano un’azienda a San Daniele
Il Friuli torna a essere la Terra Promessa, dopo una tormentata avventura vissuta all’estero. Il sogno di Angela Moroso e di Paolo Paternoster si è infranto sullo scoglio di un mondo diverso dalle aspettative: quello della Cina. Alla fine, la nostra terra è ritornata luogo di approdo e di speranze.
Lei, trentottenne di San Daniele del Friuli, ha in tasca una laurea in Lingue e Letterature straniere. Lui, trentatreenne di Rossano Calabro, è laureato in Lingue orientali, con spiccata attrazione per il cinese. Padova custodisce ancora i ricordi del loro incontro: lei aveva accettato un incarico di traduttrice, dopo una breve esperienza nella compagnia aerea Lufthansa; lui invece stava ultimando la tesi.
Colsero l’attimo per l’avvio di una vita insieme. Si sposarono e, subito dopo, maturarono l’idea della Cina, un obiettivo che li aveva stregati. Così decisero di esplorare quel mondo lontano, con meta Dalian, una metropoli di oltre sei milioni di abitanti arroccata sulla penisola di Liaodong. È un porto sul Mar Giallo, strategico per il Paese del Dragone, perché guarda direttamente verso l’incognita inquietante della Corea del Nord. L’idea era di aprire un’attività nel settore agroalimentare, perché quello era diventato l’orientamento professionale che coinvolgeva entrambi. «Abbiamo sbattuto però la testa – ricorda Angela – contro un sistema clientelare e chiuso.
Chi vuole costituire una società deve prendersi dentro un cinese, e questo magari fa di tutto per creare condizioni di concorrenza già all’interno, con l’obiettivo di assorbire l’anima dell’impresa, per poi svilupparsela per conto suo. Non ci sono tutele che tengano». Capita che, quando le cose non girano, subentrino le struggenti nostalgie delle proprie radici. In Cina rimasero poco più di un anno. Poi rientrarono in Italia. «Mi mancava la bellezza dei miei luoghi natii – continua Angela – legati agli scenari naturali del Tagliamento». I richiami del Friuli si integrarono con le opportunità di lavoro. «Non avevamo nessuna intenzione di aggrapparci a un posto fisso – spiega Paolo – che non era in sintonia con il nostro spirito libero. Volevamo essere protagonisti della nostra storia».
Quindi colsero al volo l’opportunità di continuare l’opera avviata dalla famiglia di lei nel settore agricolo, ad Aonedis, un paesino di un centinaio di anime in comune di San Daniele. C’erano gli spazi per introdurre metodi innovativi. In fin dei conti, anche l’agricoltura ha bisogno di creatività, al pari di qualsiasi altro settore economico. È nata così l’azienda agricola l’Orto sul Fiume, con tanto di marchio stilizzato con le iniziali OF separate da un tratto movimentato di color azzurro, che si richiama al Tagliamento.
Il ritorno degli ulivi in Friuli.
Il padre di Angela, Gilberto Moroso, aiutato dalla moglie Giuliana, aveva avviato fin dal 1992 la coltura degli ulivi, nonostante lo scetticismo di molti agricoltori: «Ma valà, il freddo rischia di compromettere tutto». Lui invece tirò dritto. L’idea era maturata ascoltando una trasmissione radiofonica. Si stava recando a Conegliano per lavoro e, come capita, la radio è una buona compagna di viaggio. «Appresi che l’Ersa del Friuli Venezia Giulia – spiega – intendeva sostenere un piano di reintroduzione dell’ulivo nelle nostre zone mettendo a disposizione uno stock di piantine.
Era l’occasione per rovesciare l’impostazione di un’agricoltura fatta di lavoro, ma soprattutto di passione. Basta mais». Gilberto Moroso aveva un’officina di costruzioni meccaniche a San Daniele, il coltivatore lo faceva part-time nei piccoli appezzamenti di famiglia ad Aonedis, accanto all’abitazione, a Ragogna e a Spilimbergo: all’incirca quattro ettari di terreno. Così ricavò un po’ di posto per una cinquantina di piante: oggi ne ha più di 350, alle quali si aggiungono altre 150 affidategli in gestione. Si tratta di un patrimonio in grado di garantire mediamente un raccolto annuo di 50 quintali di olive, che spremute in un frantoio triestino danno 500 litri di olio.
Perché ha voluto superare le resistenze? «Sta scritto nella storia. Ci sono riferimenti abbondanti agli uliveti del Friuli Venezia Giulia. Maledetta fu la tremenda gelata del 1929 – sostiene sorridendo – con il termometro che toccò per molti giorni i 15 gradi sottozero. Un disastro. Rimasero pochi ceppi. La paura favorì l’espansione delle viti e dei gelsi. Dopo la batosta, la lenta ripresa interessò soprattutto la zona del Carso. Successivamente, i cambiamenti climatici e la qualità delle cultivar più resistenti hanno aiutato il ripristino dell’ulivo nei versanti più protetti, lungo il fronte della pedemontana, da Caneva fino al Cividalese, nonostante il Friuli Venezia Giulia sia ritenuto il punto-limite (tra il 45° e il 46° parallelo) per questo tipo di coltivazione».
Le nuove prospettive incoraggiano le sperimentazioni, tant’è che la frontiera si sposta ancora più a Nord. Da anni si assiste a uno sviluppo rapido degli impianti, serve però una decina d’anni per raccogliere buoni frutti. La nostra regione conta ormai 500 ettari coltivati a ulivo, ma rappresenta un puntino nella mappa nazionale. Su una cosa Gilberto non ha dubbi: «Lo standard di qualità del nostro olio è buono, ma i costi sono elevati per la bassa resa e assenza di economie di scala». E non butta lì queste riflessioni per partigianeria, perché lui è uno che se ne intende. È diventato uno dei più apprezzati esperti assaggiatori professionisti. La produzione italiana soffre da anni, ma difende il secondo posto mondiale, dietro la Spagna e prima della Grecia. Questa situazione difficile provoca l’invasione di prodotti dall’estero, con scarsi controlli di tracciabilità. Quello dell’olio di oliva è uno dei numerosi allarmi che coinvolgono il Made in Italy.
Non si vive di soli ulivi.
Lo splendido scenario della Natura tiene vivi i sentimenti per il lavoro della terra e la valorizzazione del “terrazzo” di Aonedis sulle sponde del Tagliamento, laddove il fiume, con la sua forza impetuosa, ha scavato nei millenni un percorso di rara bellezza: ha inciso il terreno, tormentandolo con lo scorrere dell’acqua; in parte l’ha anche addolcito. La sua forza ha lasciato il segno inconfondibile nelle scarpate che caratterizzano la pianura del Sandanielese. Le fertili campagne sono coltivate prevalentemente a mais e soia. Ma le vecchie tradizioni non bastano più. Nel caso della famiglia Moroso, non sono sufficienti neppure gli ulivi a garantire un reddito sicuro.
Così, dopo uno studio accurato dei terreni, l’azienda ha sperimentato alcune coltivazioni di ortaggi: varie qualità di pomodoro, compreso quello silano, che garantisce dimensioni particolari (anche un chilo e mezzo); uno speciale Caigua, che è un insolito cetriolino vuoto all’interno, molto dolce e tenero, di origini sudamericane; lo sclopit, una pianta aromatica locale (i cui semi sono stati riprodotti dall’Ersa), che invita a numerose ricette in cucina; senza dimenticare gli ortaggi più comuni, dalle zucchine ai cardi e a vari tipi di verdure. C’è spazio anche per carciofi e fave, che crescono nei terreni dell’alta pianura friulana.
«Abbiamo fatto scelte etiche nel rispetto del biologico – sottolinea Angela – escludendo porcherie chimiche: niente diserbanti né trattamenti invasivi. Puntiamo a vendere prodotti freschi e genuini nei mercati locali. Una parte del raccolto viene selezionata per sviluppare una linea di sottaceti e conserve sottolio». La produzione aziendale è completata dai piccoli frutti: more, ribes, lamponi e fragole. Anche in questo caso, tutto quello che resta dalla vendita di prodotti freschi viene utilizzato per confetture, gelatine e succhi. Il lavoro di trasformazione è affidato a un laboratorio di Lestans, il quale ha il compito di dare concretezza alle idee di Angela e Paolo, che non disdegnano di provare qualche abbinamento tra i gusti di Friuli e Calabria.
Da un po’ di tempo, l’azienda ha individuato anche un promettente sbocco austriaco per i frutti di bosco: «Una pasticceria di Graz acquista i nostri prodotti per i ripieni dei suoi cioccolatini». In fatto di sperimentazioni, anche papà Gilberto non si tira indietro. Ha infatti recuperato varietà antiche di frumento e mais. La novità nelle produzioni Moroso è la farina per la polenta puntinata per effetto delle granelle scure, dove prevale il colore violaceo. «La pannocchia viene raccolta e sgranata a mano – spiega – e il tutto viene macinato a pietra». Le idee elaborano altri progetti. Così un’altra “chicca” è lasciata come toccasana finale della lunga chiacchierata.
«Non poteva mancare un altro anello alla catena della nostra piccola filiera agroalimentare. Abbiamo definito in questi giorni un accordo per l’affitto dell’agriturismo Km 6 di Martignacco – racconta Paolo, trattenendo a stento l’entusiasmo per la nuova avventura – a ridosso del Città Fiera di Udine, in una zona strategica. Il passaggio di gestione sarà soft. Finalmente la struttura costituirà un’importante vetrina per le nostre produzioni. Poi, piano piano, la cucina proporrà un pezzo della nostra storia familiare, attraverso i piatti delle tradizioni friulane con qualche saporita opzione calabrese». Ricerca e sapiente mescolanza: chi lavora nei campi mantiene sempre stretti i legami con il territorio.
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