Milano, 12 novembre 2017 - 06:41

Milano, dalla coca al jihad: espulso detenuto. «Si è radicalizzato»

Arrestato per spaccio di droga Hassam Rakha si è indottrinato durante la permanenza in carcere. Dal 2015 allontanati dal capoluogo lombardo 22 «fiancheggiatori»

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Ahmed Hassam Rakha, 31 anni, egiziano, è entrato a San Vittore il 15 giugno 2015 perché spacciava cocaina. Ed è uscito dal carcere di Bollate, tre giorni fa, come «detenuto a rischio di proselitismo e radicalizzazione violenta». Scortato a Malpensa dalla polizia, è stato imbarcato su un volo diretto al Cairo.

La storia di Hassam Rakha, che il Corriere può ricostruire in esclusiva in tutti i suoi passaggi, è emblematica per un paio di aspetti. Da una parte, mostra la parabola di un pusher che si avvicina all’Islam radicale in carcere; dall’altra, permette di capire come funzionano gli ingranaggi della più importante arma di prevenzione del terrorismo messa in campo dall’Italia negli ultimi tre anni: il rimpatrio dei «soggetti a rischio». Un sistema che a Milano ha raggiunto la sua massima potenzialità. Per spiegare come funziona, prima di raccontare la storia di Hassam Rakha, bisogna aggiornare il quadro sulle espulsioni.

Il primo canale è quello dei rimpatri «decretati» direttamente dal ministero degli Interni «per motivi di sicurezza dello Stato»: in quest’ambito, in tutta Italia, le espulsioni di «fiancheggiatori» o sostenitori del terrorismo sono state 66 nel 2015, 66 nel 2016 e 92 nel 2017. In totale, 224 in meno di tre anni: quasi un quarto degli espulsi (48) vivevano in Lombardia e la maggioranza (22) a Milano, prima città in Italia per islamisti allontanati. Poi ci sono le espulsioni della Questura. Si tratta di persone che rispondono a due requisiti chiave: non sono in regola con i documenti e hanno un profilo di «pericolosità sociale» (molti hanno precedenti penali). L’Ufficio immigrazione della Questura di Milano ha in assoluto la più alta efficienza nella gestione di queste pratiche: 296 rimpatri nel 2015, saliti a 762 nel 2016 e arrivati a 823 a settembre 2017 (ultimo dato ufficiale, a oggi dovrebbero essere più di mille). Numeri superiori al totale delle espulsioni fatte in tutto il resto d’Italia. Solo in una porzione ridotta di questi casi la «pericolosità sociale» ha a che fare col terrorismo, ma almeno una dozzina tra i quasi mille espulsi del 2017 rientra nel rischio radicalizzazione. E tra questi c’era Hassam Rakha, in Italia da dieci anni.

Il ragazzo egiziano viene arrestato a metà 2015 e, in primo grado, viene condannato a tre anni e quattro mesi. Sentenza confermata in Appello (marzo 2016) e poi in Cassazione (novembre 2016). Fino al momento dell’arresto l’uomo, che aveva anche vissuto nel palazzo di viale Bligny 42, noto in passato come base di piccolo spaccio, non era mai stato neppure sfiorato da indagini o sospetti dell’antiterrorismo. Quando entra a San Vittore, e viene chiamato in Tribunale per la prima condanna, è semplicemente un «detenuto comune». Col passare dei mesi, però, si sviluppano due percorsi paralleli. Da una parte, il magistrato di sorveglianza (a maggio 2017) ordina la sua espulsione come «pena alternativa alla detenzione». Un provvedimento al quale il detenuto fa opposizione. In parallelo però, in carcere, il nome di Hassam Rakha entra nel radar del Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria, che si occupa di monitorare la radicalizzazione. Stando all’ultimo rapporto del ministero della Giustizia, a fine 2016 nei penitenziari italiani c’erano 165 detenuti di «primo livello» (condannati per reati di terrorismo internazionale), 76 di «secondo livello» (che hanno manifestato in forma esplicita adesione all’ideologia jihadista) e 124 di «terzo livello» (segnalati e sotto osservazione perché a rischio estremismo religioso). A metà 2017 il pusher egiziano viene inserito in quest’ultimo gruppo. E poco dopo, fine ottobre 2017, la sua opposizione al rimpatrio viene bocciata. A questo punto i due percorsi si incrociano.

Dieci giorni fa il carcere di Bollate trasmette dunque i documenti su un «soggetto» che può essere espulso come «detenuto comune», ma che nel frattempo è entrato in un’area di radicalismo religioso in carcere. Il fascicolo torna così all’Ufficio immigrazione della Questura. Che in un paio di giorni organizza il rimpatrio. La regia dell’espulsione è l’ultima fase della strategia di prevenzione del terrorismo.

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