Milano, 12 novembre 2017 - 08:07

«Più prevenzione e cultura per evitare derive fanatiche»

Branca: il rischio è autentico e il monitoraggio da solo non basta Gli antidoti «Bisogna dare speranza e lavorare sul senso di appartenenza alla grande civiltà islamica»

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Paolo Branca
Paolo Branca

«Entrare a lavorare in carcere non è semplice. Ho iniziato a provare dieci anni fa, quando ancora non c’era questo tipo di problema, e non ci sono mai riuscito».
Qualcosa è cambiato?
«Ultimamente, in questi anni di minaccia Isis, sono riuscito a entrare, comunque a livello estemporaneo e volontario, quattro volte al Beccaria, nei venerdì di Ramadan, abbiamo anche fatto pregare i ragazzi che lo hanno chiesto, due volte con un egiziano altre due con un marocchino. E poi ho visitato tre volte San Vittore, con un’associazione di ispirazione cattolica; abbiamo visto e discusso alcuni film».

Qual è il risultato di queste sue «visite»?
«Un problema esiste, e lo sappiamo anche al di là di quel che ho potuto vedere. Il rischio di radicalizzazione nei penitenziari è autentico». Dal 1989 Paolo Branca tiene il corso di Storia delle religioni (islam) all’Istituto di scienze religiose dell’università Cattolica, è un professore associato che però esce molto dalle aule, parla con le comunità, si confronta con le associazioni, uno studioso sempre attento all’attualità globale e locale.

Le istituzioni fanno una corretta valutazione del problema?
«La percezione del tema, in una fase di emergenza, sta crescendo. E ora qualcosa di più si riesce a fare rispetto a dieci anni fa, ma siamo lontani da un intervento continuativo e sistematico che una questione del genere meriterebbe».

Nelle carceri si fa però da tempo un monitoraggio continuo sulla radicalizzazione. Non è sufficiente?
«Questo lavoro è una parte, rientra nell’approccio diretto orientato alla sicurezza. Se una persona ha attitudini o potenziali derive verso il terrorismo mi sembra ragionevole che sia seguito, e che si possa arrivare a un’espulsione come prevenzione. Ma non può essere solo questo».

Cosa manca allora?
«Facciamo un esempio: la “legge D’Ambruoso” è passata alla Camera e prevede almeno 10 milioni di euro l’anno per attività di anti radicalizzazione nelle scuole e nelle carceri. Aspettiamo l’approvazione al Senato. La prevenzione andrebbe fatta in modo adeguato, ma finora non è avvenuto».

Mancano le risorse o la volontà?
«Non so... tempo fa una circolare chiedeva alle università di segnalare persone che conoscevano la lingua araba per lavorare come volontari nelle carceri. La contraddizione mi sembra macroscopica: se siamo di fronte a un’emergenza, il lavoro non può essere delegato al volontariato».

Perché il carcere diventa luogo di radicalizzazione?
«È un luogo di deprivazione, quando si finisce in carcere in qualche modo il progetto di migrazione è fallito, e quindi qualcuno può attaccarsi alla religione. Non è detto che ciò avvenga sempre e solo in modo sbagliato; in qualche caso la trasformazione può assumere un aspetto più ideologico, o antagonista/vendicativo. Spesso certi detenuti si vedono vittime di un sistema internazionale che non permette lo sviluppo dei loro Paesi d’origine, di una differenza di trattamento anche in Europa. Tutto ciò può essere una molla».

Che lavoro bisogna fare?
«Propongo di insistere sull’aspetto culturale, questi detenuti devono sentire di appartenere a una grande civiltà, che è quella islamica; bisognerebbe restituire dignità e orgoglio, molti sono analfabeti o di scarsa scolarizzazione nei Paesi di origine. Come detenuti e come arabi/musulmani all’interno delle carceri vivono una doppia emarginazione, e questo può contribuire alla radicalizzazione».

Il recupero di identità basterebbe?
«Servirebbe anche far vedere la possibilità, quando usciranno, di poter contribuire allo sviluppo; dovremmo far concepire loro un possibile sbocco, sono persone che parlano due lingue, conoscono due Paesi, hanno attraversato il mare e potrebbero avere un ruolo».

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