Milano, 21 ottobre 2017 - 08:13

Milano, «È pericoloso».«No, non più». Duello tra giudici sull’ex boss Rocco Papalia

Milano, Papalia tornato libero ottiene la revoca della sorveglianza

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Da ieri c’è un nuovo possibile testimonial di talune schizofrenia della giustizia: è Rocco Papalia, il 67enne fratello degli ergastolani Antonio e Domenico, già alla ribalta quando il 5 maggio fu scarcerato per fine pena espiata dopo 25 anni di carcere, a fronte di una somma algebrica (124 anni per 11 condanne) ricondotta però al tetto massimo di 30 anni dalla specifica norma moderatrice, e ancora limata da 2.160 giorni (quasi 6 anni) di altrettanto ordinaria «liberazione anticipata». Una volta in libertà, infatti, in questi giorni Papalia sta sperimentando, tra le varie magistrature, giudizi abissalmente opposti sulla sua «pericolosità sociale» o meno. Lo scorso 2 ottobre il giudice di Sorveglianza aveva negato al pm del pool esecuzione la misura di sicurezza di due anni in «colonia agricola» perché aveva ritenuto errata la norma invocata dal pm al posto di quella giusta, ma come premessa aveva comunque ribadito la persistenza della «pericolosità sociale». Che è il presupposto anche della «sorveglianza speciale», cioè della misura di prevenzione (obbligo di soggiorno, di stare a casa tra le 22 e le 7, di non frequentare pregiudicati) che il 22 giugno il Tribunale presieduto da Fabio Roia, su richiesta dei pm del pool antimafia, aveva imposto a Papalia scarcerato per fine pena: ma ieri la Corte d’Appello, accogliendo il ricorso dei difensori Ambra Giovene e Annarita Franchi, revoca la «sorveglianza speciale» perché ravvisa non ci sia più proprio quella «pericolosità sociale» che appena 18 giorni fa era stata riaffermata dal giudice di Sorveglianza.

Impressionante il confronto fra i 4 motivi, identici nei temi ma opposti negli esiti. Ieri in Appello i giudici della prevenzione Nova-Brat-Caputo, rimarcando «le positive relazione degli educatori» su Papalia e i permessi ottenuti negli ultimi anni di detenzione, osservano che «non assegnare valore» al «suo percorso carcerario tutt’altro che trascurabile (25 anni)», e «connotato da regolarità di condotta» in cella, «significherebbe negare il valore risocializzante e rieducativo della pena, consacrato nell’articolo 27 della Costituzione; invece per la giudice di Sorveglianza del 2 ottobre, Bruna Corbo, era «ininfluente (a fronte della caratura criminale) l’aver serbato in carcere condotta regolare tanto da beneficiare di permessi e di una cospicua riduzione di pena». Se ieri la Corte d’Appello valorizza «gli elementi che denotano l’allontanamento di Papalia dagli ambienti malavitosi che ne hanno contraddistinto la prima parte di vita», pochi giorni fa il giudice di Sorveglianza scriveva che invece in lui «non c’è alcun segnale di una sua presa di distanza dalle logiche mafiose del passato», tantomeno di «un sia pur minimo segno di pentimento o di pietà per le vittime» (i sequestrati in 4 rapimenti, e l’ucciso nel 1975 per cui fu condannato nel 2015).

Dissidio anche su «i pregressi rapporti» di Papalia (che resta ora sottoposto alla più blanda libertà vigilata) «con ambienti malavitosi»: ieri per la Corte d’Appello essi «non consentono di ricavare una concreta attualità», tanto più che l’unica condanna per associazione mafiosa gli fu revocata nel 2013 in Appello; invece per la giudice di Sorveglianza, nelle mafie storiche come la ‘ndrangheta, «in assenza di un esplicito atto di dissociazione è del tutto irrilevante il passare del tempo, che da solo non basta a recidere i legami». E infine, se per la giudice di Sorveglianza pesava che Papalia non avesse un lavoro, per i giudici d’Appello invece «l’invalidità del 75% ne rende oltre modo arduo un inserimento in qualsivoglia contesto lavorativo», e plausibile che al suo sostentamento provveda la moglie titolare di un bar sui Navigli.

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