Milano, 28 ottobre 2017 - 07:37

Milano, 1412: il giovane duca folle assassinato fuori dalla chiesa

Giovanni Maria Visconti aveva 24 anni e da dieci regnava sulla città spargendo il terrore. Fra le altre atrocità, faceva sbranare i suoi avversari dai cani. Fu pugnalato da un gruppo di congiurati mentre si recava a San Gottardo

Il quadro di Ludovico Pogliaghi «La morte di Giovanni Maria Visconti», commissionato nel 1889 Il quadro di Ludovico Pogliaghi «La morte di Giovanni Maria Visconti», commissionato nel 1889
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Erano in tanti, quella mattina del 16 maggio 1412, ad attendere il duca di Milano che scendeva dagli appartamenti di palazzo per assistere alla messa nella chiesa di famiglia, San Gottardo in corte, accanto al Duomo ancora in costruzione. L’antenato Azzone, sofferente di gotta, aveva intitolato la chiesa e campanile al vescovo tedesco Gottardo, che aveva dato ampie dimostrazioni di virtù taumaturgiche. Ma a questo il 24enne duca non pensava, concentrato com’era sui suoi passatempi preferiti: la caccia e le donne. Vestito di tutto punto, con calzamaglie spaiate, una rossa e una bianca, secondo la moda del tempo, Giovanni Maria uscì dagli appartamenti privati del palazzo e raggiunse la corte interna per entrare in chiesa. Nonostante i consigli di un amico, non aveva voluto rifugiarsi nella torre Giovia, che sorgeva nell’attuale cortile della Rocchetta del Castello Sforzesco.

Non sospettava che ad attenderlo c’erano i nobili che gli avevano giurato vendetta. Erano i giovani rappresentanti delle famiglie Baggi, Pusterla, Trivulzio, Mantegazza, Del Maino, tutte gravemente offese dal duca. Circondarono il giovin signore e lo pugnalarono in varie parti del corpo. Un fendente mortale lo raggiunse alla testa. Così finiva il regno di Giovanni Maria Visconti, signore di Milano per dieci anni, dal 1402, quando a 14 anni era rimasto orfano del padre. La salma venne trasportata in Duomo, ma nessuno, nemmeno la giovane moglie Antonia, andò a rendergli gli onori.

Soltanto una meretrice, secondo le cronache locali, cosparse quel corpo martoriato di rose rosse. La scena dell’uccisione del tiranno di Milano ha colpito l’immaginazione romantica e ci è stata tramandata in un quadro ottocentesco del varesino Ludovico Pogliaghi. Un dipinto che dovrebbe essere custodito a Brera, ma che qualcuno ha voluto inspiegabilmente trasferire a Montecitorio. Ma perché Giovanni Maria Visconti aveva fatto quella fine?

Secondo Pietro Verri, perché era «un mostro crudele, pazzo, debole, imbecille e ferocissimo». Per Carlo Cattaneo perché era «libertino e crudele come Nerone». Certo il giovane duca non aveva avuto vita facile nella Milano del Rinascimento, che nei primi anni del Quattrocento fu teatro di una vera e propria guerra civile e fu sconvolta da carestie e pestilenze. Giovanni Maria era il primogenito dei due figli che Gian Galeazzo aveva avuto dalla cugina Caterina. Un matrimonio contratto per «legittimare» in qualche modo la violenta presa del potere da parte di Gian Galeazzo, avvenuta nel 1385: aveva avvelenato lo zio Bernabò Visconti, signore di Milano da oltre trent’anni e padre di Caterina.

Dei due figli avuti dalla coppia il maggiore, Giovanni Maria, che già da ragazzo dava segni di squilibrio, era il più incontrollabile. Tanto che prima di morire, nel 1402, Gian Galeazzo nominò un consiglio di reggenza - presieduto dalla vedova - che doveva guidare l’erede sino ai vent’anni. Per il fratello Filippo Maria, di indole più pacata, che ebbe in eredità Pavia, la tutela era prevista solo fino ai quindici anni. Gian Galeazzo, forse il più grande dei Visconti, aveva lasciato in eredità un regno che si estendeva dal Veneto alla Lombardia, dal Piemonte alla Liguria e a Sud toccava alcune città della Toscana e dello stesso Stato pontificio. Un regno dai piedi d’argilla, che il giovane Giovanni Maria non era certo in grado di gestire. Nel giro di due anni le principali città sotto il dominio milanese si resero autonome, mentre a Milano si scatenavano le fazioni per togliere il potere a Caterina e all’erede.

Il nuovo duca Giovanni Maria, nonostante la giovane età, non volle rimanere fuori dai giochi e già nel 1403, a quindici anni, si schierò con il partito dei ghibellini che accusava uno dei suoi tutori, Francesco Barbavara, forse anche amante della madre, di voler instaurare un governo guelfo. A seguito di questa prima congiura fu giustiziato l’abate di Sant’Ambrogio, guelfo, accusato di far parte del complotto. Giovanni Maria lo diede «alle mani del popolo che ne fesse quello che gli piacesse e li fo morto». Una scena che oggi ci fa pensare alla saga tv «Il trono di spade». E in effetti il giovane duca di Milano ricorda molto alcuni dei giovani e sadici regnanti nati dalla fantasia di George R. R. Martin, che dichiaratamente nella sua opera si è ispirato alla storia medievale. Per esempio, come Joffrey Baratheon il giovane Visconti era figlio di consanguinei e psicopatico.

E come Ramsay Bolton, altro personaggio della saga, Giovanni Maria aveva l’abitudine di far sbranare i suoi rivali da mastini particolarmente mordaci. Il suo braccio destro e compagno di caccia aveva un nome che era un programma: Giramo Squarcia. Al duca adolescente bastò indicargli un insegnante poco gradito: Squarcia gli aizzò contro i cani e lo tolse di mezzo. Una fine che il sadico duca fece fare a molti. Nell’ottobre 1404, quando Giovanni Maria aveva 16 anni, sua madre Caterina, divenuta sua avversaria politica, morì nel castello di Monza dove lui l’aveva fatta rinchiudere. Già menomata da un colpo apoplettico, spirò forse per malattia, o forse per un veleno fattole somministrare dallo stesso figlio. Questa era almeno la voce che circolava a Milano. Per liberarsene, il duca incolpò il signore di Monza, Giovanni Pusterla, e un suo figlio dodicenne. E fu sempre Squarcia a organizzare, quattro anni dopo, l’uccisione per sbranamento dei due. Poiché i mastini si rifiutarono di azzannare il ragazzo, Giovanni Maria diede ordine al suo braccio destro di provvedere personalmente.

Giovanni Maria cambiava spesso bandiera: nei continui ribaltamenti di fronte, dei guelfi contro i ghibellini, partiti-schermo dietro i quali si nascondevano rivalità molto personali, si schierava ora con questo ora con quello. Si alleò dapprima con alcuni cugini che portavano il suo stesso cognome, poi per liberarsene chiamò in aiuto il saggio amico del padre, Carlo Malatesta, che gli portò in sposa anche la nipote Antonia. Ma nemmeno la presenza femminile riuscì a placare l’indemoniato Giovanni Maria.

Nel 1409, a 21 anni, represse nel sangue una manifestazione popolare che invocava pace, facendo passare per le armi 200 cittadini. E in un delirio di onnipotenza si dice che vietò lo stesso uso della parola «pace»: anche nelle prediche in chiesa bisognava sostituirla con il termine «tranquillità». Inviso anche alla popolazione milanese, l’ora della fine per Giovanni Maria arrivò quando si ammalò il suo ultimo protettore, il condottiero Facino Cane. Durante l’assedio di Bergamo, questi venne colpito da un malore e trasportato a Pavia.

Era il segnale che i congiurati aspettavano. D’accordo con Estore Visconti, uno dei figli di Bernabò, che attendeva a Porta Comasina, gli autori della congiura passarono all’azione. Mentre Giovanni Maria stava per entrare in chiesa il gruppo dei congiurati, tra cui Andrea e Paolo Baggi, Giovanni della Pusterla (della famiglia del castellano di Monza, sbranato dai cani), Francesco e Luchino del Maino e un Mantegazza, lo circondò con i pugnali sguainati. Un fendente gli squarciò la testa, altri colpi lo raggiunsero in varie parti, uno alla gamba con la calzamaglia bianca. E per il giovane duca sanguinario fu la fine.

Dopo il duca fu la volta del suo aguzzino, Giramo Squarcia, che venne lasciato alla vendetta popolare: fu trascinato per le strade e impiccato alla sua casa. A quel punto parve che gli eredi di Bernabò Visconti, quello avvelenato dal nipote Gian Galeazzo, fossero finalmente riusciti a pareggiare i conti. Invece, secondo una trama ricca di colpi di scena, che non ha niente da invidiare, come detto, al «Trono di spade», da Pavia si mosse il fratello di Giovanni Maria, il pacato secondogenito Filippo Maria, che sposò la vedova di Ficino Cane, Beatrice Tenda (di 40 anni, 20 più di lui), e mosse con le truppe ereditate dal condottiero alla presa di Milano. Il regno di Filippo Maria sarebbe durato 35 anni, sino al 1447.

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