Milano, 30 settembre 2017 - 00:03

Terapie in carcere e controlli medici: a Milano si curano i «sex offender»

Dei 248 detenuti trattati dai criminologi dell’équipe di Paolo Giulini, al lavoro nell’istituto penitenziario di Bollate dal 2005, i recidivi sono stati otto

Edgar Bianchi, 40 anni, a Milano ha violentato una bambina di 13 e poi si è costituito. Qui ripreso da una telecamera di sorveglianza Edgar Bianchi, 40 anni, a Milano ha violentato una bambina di 13 e poi si è costituito. Qui ripreso da una telecamera di sorveglianza
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Il problema è «scongelarli». Nel senso che alcuni degli autori di reati sessuali li si può anche tenere in carcere 5, 10, 15 anni, ma poi all’uscita — se in carcere sono stati soltanto rinchiusi — spesso torneranno a commettere quei reati: e i criminologi dell’equipe di Paolo Giulini, che dal 2005 conduce nel carcere milanese di Bollate uno dei pochissimi esperimenti italiani di specifico trattamento terapeutico dei cosiddetti sex offenders, parlano proprio di «ibernazione penitenziaria» perché questi condannati, «se quando entrano in carcere non vengono trattati, non prendono coscienza del reato commesso, restano congelati, e quando escono riproducono quei meccanismi psicopatologici che sono alla base dei loro atti» di stupro, molestie, pedopornografia.

La scelta della Francia

L’ordinario supporto riabilitativo che il carcere offre già poco o per nulla ai detenuti ordinari, magari con un solo psicologo per centinaia di detenuti, a maggior ragione non incide su individui spesso connotati da disturbi della personalità, incapaci di mettersi nei panni degli altri e percepirne la sofferenza inflitta, o essi stessi abusati da piccoli in un caso su cinque. Ci sono Paesi, come la Francia, dove dal ’98 il giudice, dopo l’espiazione della pena, impone all’autore di reati sessuali di seguire un periodo (da 2 a 5 anni) di «controllo medico-socio-giudiziario»: se non vi si sottopone, scatta un reato autonomo che determina un’altra condanna.

Le sedute con i familiari

Dal 2005 Giulini, con il Centro italiano per la promozione della mediazione, e d’intesa con il Presidio criminologico territoriale del Comune di Milano, a Bollate prova invece far usare ai condannati il tempo della pena, anziché farlo solo scorrere in attesa del ritorno in libertà: in modo che quel tempo serva al detenuto — su base volontaria — per assumere la responsabilità, e prima ancora la coscienza, di ciò che ha fatto. Dopo tre mesi di osservazione, il detenuto firma un contratto simbolico con l’équipe per impegnarsi a un anno di trattamento, con quattro sedute settimanali, e una bisettimanale anche con i familiari. È un lavoro complicato, per nulla scontato, a volte crudo (intuibile guardando le riprese del film «Un altro me» realizzato nel 2016 da Claudio Casazza e premiato alla 57esima edizione del Festival dei popoli di Firenze): a cominciare dalla rimozione delle negazioni dietro le quali il sex offender si trincera, e cioè la negazione di quanto ha commesso, della propria consapevolezza, del dolore della vittima, della progettualità, della sessualità, e naturalmente la negazione di tutte queste negazioni. Oltre che sui disturbi della personalità, il lavoro si concentra sulle distorsioni cognitive che permettono agli autori di reati sessuali di sopportare nella propria psiche ciò che infliggono alle vittime. Tutte dinamiche che l’evocazione della castrazione chimica non coglie per nulla, e non solo per la scientificamente non dimostrata relazione tra riduzione del testosterone e riduzione della libido: i sex offenders appaiono non tanto persone che praticano una modalità aggressiva di esprimere la sessualità, quanto soggetti che canalizzano sulla dimensione sessuale il loro esprimere aggressività e volontà di annullare la vittima.

Esperienze isolate

«È triste che se ne parli solo quando ricapita uno di questi fatti — commenta amaramente Giulini —, si dovrebbe invece pensarci prima e fare sistema ed estendere quelle che oggi sono esperienze isolate»: Bollate appunto, poi due anni di esperimento a Rebibbia (ma il finanziamento è finito proprio adesso), qualcosa a Piacenza, in futuro Pavia. Eppure l’Italia ha in teoria recepito l’articolo 13-bis della Convenzione di Lanzarote, che ad esempio pone a carico degli Stati la necessità di uno specifico trattamento psicologico per i condannati per sfruttamento sessuale dei minori. E soprattutto i risultati una strada indicano: in 12 anni, su 248 condannati trattati in carcere dall’équipe di Giulini, 8 hanno ricommesso un reato sessuale. E se da 3 anni anche gli imputati (prima ancora delle sentenze) possono chiedere di essere trattati, qui i casi di recidiva sono sinora 3 su 350.

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