6 gennaio 2018 - 21:40

Segre, memoria di Shoah: «I nomi ebrei sulle pietre per le strade di Milano»

Ventisei nuovi sampietrini in ottone per ricordare le vittime dei nazisti. Liliana Segre: «Per ora sono pochissime a Milano e sconosciute. Ricordano dove sono nati e dove sono morti ebrei e antifascisti, chi aveva scelto di stare dalla parte più pericolosa

Liliana Segre in occasione della prima «Pietra d’Inciampo» posata a Milano nel gennaio 2017 di fronte alla casa dei suoi genitori in corso Magenta (Fotogramma) Liliana Segre in occasione della prima «Pietra d’Inciampo» posata a Milano nel gennaio 2017 di fronte alla casa dei suoi genitori in corso Magenta (Fotogramma)
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«Le pietre d’inciampo? Sono piccole lapidi che ricordano chi non ha una tomba». Liliana Segre, classe 1930, sopravvissuta ad Auschwitz, dove morirono l’adorato padre e i nonni, da trent’anni testimone della Shoah, è presidente del Comitato che s’è costituito a Milano per replicare l’iniziativa lanciata dall’artista Gunter Demnig in Germania nel 1995 e che raccoglie, per la prima volta dopo la Liberazione, tutte le associazioni legate alla memoria della Resistenza.

Sampietrini in ottone, oggetti di memoria diffusa che s’innestano nel tessuto urbano, per raggiungere più persone?
«Per ora sono pochissime a Milano e sconosciute. Con la posa in programma il 19 e 20 gennaio a Milano se ne aggiungeranno 26. Ricordano dove sono nati e dove sono morti ebrei e antifascisti, cioè coloro che avevano scelto di stare dalla parte più pericolosa. Ma perché siano pedine della memoria e i ragazzi possano davvero inciamparvi, il ruolo di insegnanti e adulti è davvero fondamentale».

Qual è il suo timore?
«Che siano travolte dall’indifferenza e dall’ignoranza, perché nella vita si sta sempre sul carro dei vincitori, non dei perdenti, degli ultimi».

Ha spesso ripetuto che l’indifferenza uccide più della violenza.
«Bisogna avere il coraggio delle proprie idee, se no si naufraga nell’indifferenza. È trent’anni che parlo di indifferenza, ricordando l’immane tragedia della Shoah. Una parola che troneggia a lettere cubitali anche all’ingresso del Memoriale della Shoah al Binario 21 della Stazione Centrale. E da trent’anni le mie sono soltanto parole di pace. Da quando ho conosciuto l’odio, ed ero poco più che una bambina. Da quando ho conosciuto la solitudine, lo “stupore per il male altrui” come scrisse Primo Levi. Sono sopravvissuta per miracolo e, dopo anni e anni di silenzio, di un tempo infinito per curare le mie ferite (che non si sono mai chiuse, del resto), ho cominciato da donna quasi vecchia a diventare testimone della Shoah. Ho sempre scelto, incontrando gli studenti e le persone che vengono ad ascoltarmi, di non parlare mai di odio e di vendetta, perché sono uscita viva dal lager senza essermi mai vendicata, scegliendo di essere una donna libera».

Cosa pensa del rigurgito di antisemitismo?
«È come un’onda che cresce. Sento che la pace è lontana. A distanza di tanti anni dalle leggi razziali, che mi costarono l’espulsione dalla scuola di via Ruffini — avevo otto anni — mi sembra impossibile di dover rileggere sui giornali o rivedere alla televisione o sentire intorno a me quell’odore bestiale dell’odio verso l’altro. Ed è un odore che a me riporta un odore diverso, quello della carne bruciata nella cenere di Auschwitz».

È pessimista?
«Sono molto pessimista. Quando leggo di quei barconi che si rovesciano nel Mediterraneo e muoiono centinaia di persone di cui non si saprà mai il nome, penso sempre che il mare della dimenticanza coprirà anche quei 6 milioni di morti per la colpa di essere nati. Man mano che noi testimoni ce ne andiamo, perché siamo vecchi, si fa strada sempre più quel negazionismo che fa comodo a tutti. C’è sempre qualche voce che nel giorno della Memoria dice “e basta con questi ebrei”».

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