Napoli

Terra dei fuochi, le condanne non contano

Monsignor Di Donna 
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Acosa serve una condanna definitiva, se gli imputati di reati gravissimi per la collettività - l’inquinamento di estese zone agricole - sono già fuori dal carcere? Come potrà sanarsi la « sete di giustizia » se questo capovolgimento avviene a dispetto di una sentenza passata in giudicato? Le più laiche domande diventano invettiva (comprensibile) in bocca ai ministri di Dio. Col paradosso che chi, per mestiere, dovrebbe praticare la misericordia invoca rigore e certezza del diritto dello Stato. Così nel giorno di Pasqua, la Chiesa di Acerra, e non solo, insorge platealmente contro la negazione della pena per chi ha contaminato «il Creato», determinando con le sue condotte i destini di molti abitanti.

È il vescovo, monsignor Antonio Di Donna, non nuovo ad omelie incentrate sull’intransigenza verso mancanze e inadeguatezza dei livelli politico-istituzionali, ad esprimere amarezza e sconcerto per la scarcerazione e poi la definizione di una pena alternativa per quegli imprenditori che pure erano stati condannati a sette anni di carcere con la pesante accusa di” disastro ambientale aggravato”. L’alto prelato non li cita per nome, ovviamente. Ma si tratta dei tre fratelli Cuono, Giovanni e Salvatore Pellini: destinatari di un sequestro di beni del valore di 200 milioni, condannati fino in Cassazione per aver inquinato estese aree agricole con oltre 53mila tonnellate di rifiuti ritenuti tossici e con un milione di scarti industriali provenienti, in gran parte, da industrie del nord Italia, tutti spacciati per “fertilizzanti”. Ma, dopo dieci mesi di carcere, e l’applicazione dell’indulto (che diminuisce la pena di altri 3 anni) la Procura generale di Napoli ha deciso , in fase di esecuzione, di concedere una pena alternativa. Tutto avviene dopo ben quindici anni tra inchiesta, udienze e processi. Migliaia di atti, testimonianze, rievocazioni tese della parte civile.

Ma per i Pellini si sono spalancate le porte del carcere: appena due anni dopo che i giudici dell’Appello aumentarono le pene stabilite in primo grado, spingendo gli avvocati di parte civile e lo stesso monsignor Di Donna a parlare di «sentenza importante». Ma ora, si chiede lo stesso vescovo, «di quale giustizia parliamo? La decisione suscita sconcerto perché questo significa sottovalutare il dramma umanitario dell’inquinamento per il quale da noi ci si continua ad ammalare, e a morire. Una decisione che suscita disorientamento, soprattutto perché, a fronte del decreto governativo di due anni fa, incoraggia questi comportamenti ». Poche ore dopo, è don Marco Ricci, da Ercolano, un altro dei sacerdoti che ha coraggiosamente puntato il dito contro l’inquinamento ambientale e le responsabilità politiche e collettive, a fargli fa eco dalla sua pagina Fb: «Questa è una delle tante ingiustizie di questa Pasqua vergognosa per l’umanità e la Madre terra.

Ancora una volta è stato liberato Barabba e condannato Gesù ». Ciò che i preti non possono aggiungere è che quanto avvenuto per i condannati Pellini riguarda- purtroppo diffusamente moltissimi altri condannati, le cui posizioni vengono alleggerite da leggi e benefici che puntano a svuotare le nostre carceri sovraffollate, nella speranza che la Corte europea non torni a puntare il dito contro le condizioni di disagio in cui vive il popolo dei nostri detenuti. Il nodo, allora, riguarda la giustizia. E lo vede la Chiesa, con maggiore lucidità, seppur dalla lente della cosiddetta Terra dei fuochi - capitolo non solo doloroso, ma - come le ultime elezioni hanno dimostrato, e come il M5S ha mostrato di comprendere e cavalcare da tempo - anche politicamente molto sensibile. Moltissimi cittadini sono stufi di dover tollerare la mancanza di rigore e fermezza da parte dello Stato. Molte leggi, processi lunghissimi e sostanziale impunità.