Napoli

Ma quali porti chiusi, qui la porta di casa è sempre aperta

Lorenzo Marone 
I granelli
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Sapete a cosa pensavo? A quando qualcuno a Napoli ti invita a cena e ti fa trovare una bella tavola colma di cibo, accogliendoti con tutte le attenzioni e facendoti sentire uno di casa.

Mi sono tornati alla mente i pranzi dagli amici, da ragazzo, quando era normale mangiare o dormire da uno o dall’altro; ti sedevi e la signora iniziava a rimpinzarti di roba, e prendi questo, prova qua, e sì tropp’ sciupato, e il crocchè della nonna proprio non puoi non assaggiarlo, si offende, e solo un po’ di parmigiana di melanzane, e poi il dolce, e no, mangi troppo poco, ma tua madre non dice niente? I genitori dei compagni diventavano per un po’ i tuoi, le nonne erano tutte la tua, e ti sentivi a casa, appunto, accolto e benvoluto.

Un po’ come accadeva, come accade, nei bar che frequentiamo quotidianamente nei nostri quartieri, un saluto con il titolare, una chiacchiera, un abbraccio, a volte nemmeno paghi e lasci in conto, e via, ci vediamo domani, per un nuovo appuntamento, un cappuccino e una discussione veloce sul Napoli. Ci si sente a casa in questi posti, come se fossero i nostri salotti sparsi per le vie della città, approdi (porti) ai quali giungere per ritrovare quelle sensazioni che da ragazzo ti facevano provare le mamme dei tuoi amici, di essere benaccetto, trattato con tutti i riguardi.

Ce l’abbiamo nel Dna noi l’ospitalità, l’attenzione per il prossimo, anche per chi non conosciamo, e penso al caffè sospeso, o penso allo stadio, quando “l’estraneo” di turno alla fine del primo tempo caccia una scafarea di frittata di maccheroni e con un sorriso ti chiede se ne vuoi un po’ prima di iniziare a distribuire ai vicini quel cibo buonissimo impregnato di amore e attenzioni, preparato dalla moglie o dalla mamma.

I gesti di accoglienza ci vengono naturali, come appoggiare una mano sulla spalla dell’altro mentre chiacchieriamo, toccare in continuazione l’interlocutore per sentirlo vicino, per fargli capire che gli vogliamo bene o che, in ogni caso, gliene potremmo volere.

Abbiamo moltissimi difetti, vero, però non conosciamo la diffidenza, non portiamo maschere e non sappiamo cosa sia la boria (parlo in termini generici, ovvio), stringiamo con tutti, scherziamo con tutti, siamo una delle poche popolazioni al mondo a farci un baffo della stratificazione sociale, il nobile aristocratico vive nel palazzo insieme ai ceti più poveri, il notaio la mattina sotto casa mangia un cornetto mentre conversa amabilmente di calcio con il parcheggiatore abusivo. Siamo pieni di difetti, dicevamo, ma traspiriamo accoglienza in ogni nostra abitudine, forse perché addestrati da sempre a far spazio, perché siamo tanti e c’amma stringere, perché la storia ci ha insegnato a ricevere i popoli più che a combatterli, ché tanto ne respingi uno e la volta dopo ne arriva un altro, insomma, sappiamo come vivere tutti insieme e mica è un problema allungare la tavola, e se c’è da ospitare a dormire l’amico di nostro figlio, be’, in qualche modo ci arrangiamo, tanto il nonno sono più le volte che s’addorme sulla poltrona. Crediamo nel libero arbitrio noi, convinti che ognuno possa fare quello che vuole, ognuno campa come crede, e perciò non ci fossilizziamo se uno è nero, giallo, cattolico o musulmano, femminiello o filibustiere, no, noi abbracciamo e accogliamo, e non ci importa nemmeno di restare delusi, ché abbiamo un rapporto particolare anche con la delusione, che frequenta questa terra spesso e che, però, proprio non riesce ad attecchire, perché siamo un popolo che aspetta sempre la ciorta.

Abbiamo un modo tutto nostro di credere nel futuro, di sperare che ci porti qualcosa di buono, non temiamo perciò l’ignoto, né tantomeno il diverso, figuriamoci se potremmo mai essere razzisti, noi che il razzismo lo subiamo senza prendercela neanche poi troppo.

In questa nuova società che si trasforma alla velocità della luce grazie ai network, ai social (che diventano sempre più uno strumento del male semplicemente perché la gente li usa nel modo sbagliato, non per condividere bellezza e pace, ma odio, nevrastenia, paura e diffidenza), in questo nuovo mondo che ci sovrasta e ci fa sentire estranei a casa nostra, che spazza ogni giorno un po’ di umanità dal pianeta, nella settimana ormai tristemente famosa dell’Aquarius, non posso non ritenermi fortunato a essere nato a Napoli, terra di conquista per tutti, certo, ma anche terra che conquista, perché, salvo sporadici casi, hanno imparato più da noi gli invasori che il contrario.

Chi viene qua capisce subito che o si adatta a vivere a modo nostro, ad amare dunque l’anarchia, il caos, a stare uno in cuollo all’altro, tutti insieme, il buono e il cattivo, il ricco e il povero, o peggio per lui. Noi accogliamo tutti, e tutti diventano come noi, i cingalesi, gli africani, i balcanici, ognuno qui trova quasi sempre una mano tesa, un posto a tavola, e una nonna con una parmigiana di melanzane pronta per l’occasione.

Altro che porti chiusi, a Napoli anche la porta di casa rimane sempre accostata.