Napoli

Roth, il fuoco di un grande uomo americano

Philip Roth
  (fotogramma)
I granelli
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C’era una volta un bambino che, di fronte alla morte del nonno, al suo corpo inerme steso sul letto, provò (a parte il dolore, ovvio) una smisurata curiosità. Curiosità bambina, appunto, per l’insolita immobilità, curiosità mossa dalla domanda interiore che cominciò a scavare dentro di lui come un tarlo: cosa ne era stato di tutto quello che suo nonno aveva dentro, quello che lo spingeva a muoversi, a parlare (seppur a fatica), pensare.

Con quella domanda strana e senza risposta il bimbo crebbe, non era un gran credente eppure questa cosa che ci muoviamo, che parliamo, respiriamo, produciamo calore, ingeriamo cibo, inventiamo, creiamo, ci amiamo, ridiamo e piangiamo, sudiamo, questa cosa incredibile che dentro di noi è tutto un fuoco che pulsa, che questo fuoco ci muove e ci spinge a compiere le nostre attività, lo rasserenava e gli permetteva di sentirsi un po’ più al sicuro, meno in balia del vento, convinto che ci fosse qualcosa di magico dietro tutto. Mi permetto di infilarmi nella storia solo un attimo per dirvi che qualche giorno fa, subito dopo aver appreso della morte di Philip Roth, la stessa domanda è venuta a visitare anche me. Mi chiedo dove sia andato a finire quello che il grande scrittore aveva dentro, il suo fuoco interiore che ardeva e gli permetteva di essere quel che era. Quel nucleo pieno di energia positiva (quelle fiamme che hanno incendiato il mondo) servirà all’universo che in qualche modo lo utilizzerà per rigenerarsi oppure si è dissolto per sempre senza lasciare traccia?

Dovrei tornare alla storia, ma continuo ad abusare per un attimo della vostra pazienza e ne approfitto per scrivere qualche riga “normale” di elogio al grande autore americano, un inciso per lo più giornalistico, e lo faccio iniziando con il dire che dovevo parlare di ragazzi questa settimana, prima che arrivasse, improvvisa, la notizia di Roth. E allora no, ho pensato, non posso non parlare di lui, del colosso che è stato per me, io che ho inserito una citazione tratta da “Pastorale americana” in un mio romanzo.

“Pastorale americana”, con cui lo scrittore ha vinto il Pulitzer nel 1998, è uno di quei libri che ti cambia la vita. Già, sì, ne esistono, vi assicuro, esistono uomini del nostro tempo (e di quello passato) che si avvicinano al concetto di stregoneria, che invece di paioli e bacchette magiche usano le parole, le frasi, i costrutti, per fare incantesimi. Philip Roth era uno di questi, un autore capace come pochi di esplorare l’animo umano, la sua inquietudine, lo scrittore capace di narrare tante piccole storie all’interno di una grande storia, di raccontare la famiglia “perbene” che è perbene fino a quando non è messa alle strette, di parlare di sesso, di religione, di razzismo, di società, di ebraismo, di vita e di morte, e di farlo con l’ironia che lo contraddistingueva, con l’uso di un linguaggio per nulla articolato, pulito e non ricercato, privo di orpelli, come piace a me (ché credo che la scrittura sia solo uno strumento per la trasmissione delle emozioni), che arriva dritto al lettore, convinto com’era che non si dovessero usare parole stravaganti e termini pedanti.

Con il suo stile, con la sua arte, ha dato vita a un certo modo di rappresentare la società americana, un certo modo di raccontarla, di raccontare, e non posso non pensare a “Le correzioni” di Franzen e a “Eccomi” di Foer, i due autori che più, a mio avviso, si avvicinano, o hanno tentato di avvicinarsi, al modello Rothiano.

E qui finisce il mio tributo giornalistico a Roth. Nulla di sensazionale, ho detto quello che più o meno stanno dicendo tutti, quello che tutti pensano di lui, i suoi milioni di lettori sparsi per il globo (anche se su Amazon sono incappato in recensioni negative persino di Pastorale americana, figuriamoci un po’).

Torniamo a quel bambino che si fa domande strane.
È un adolescente di dodici anni, dovrebbe pensare a giocare, dedicarsi alla vita, non alla morte, dovrebbe avere fiducia nelle cose, invece se ne sta lì a guardare il nonno e a riflettere (inconsciamente, ovvio) sul non senso, accecato dalla natura spaventosamente provvisoria di ogni cosa. Quel bambino si fa poi ragazzo, e tenta di resistere in solitudine, di andare avanti e non porsi troppe domande, tenta anzi di porre un freno a queste domande con l’amore, bisognoso forse di diventare parte di un tutto, senza sapere che sei una cosa unica prima di iniziare e l’amore ti frantuma. Sei tutto intero e poi finisci spaccato.

Il ragazzo pieno di dubbi si fa uomo e cerca la sua strada nel mondo, cerca di capire gli altri, e invece si accorge che “capire la gente non è vivere, vivere è capirla male, e male e poi male”. E allora le domande strane ritornano, e alimentano i dubbi; aveva imparato la lezione peggiore che la vita possa insegnare: che non c’è un senso.

Finché un giorno l’uomo che era ragazzo incontra la scrittura, inizia a smontare frasi e a rimontarle, a scavare buche che illumina con una torcia per dare sfogo alla sua fiamma interiore che proprio non vuole disperdere prima del tempo.
E allora tutto cambia.

Quel ragazzo oggi, mattina dopo mattina, affronta le pagine a venire senza difese e impreparato, più che con il suo talento, con l’ostinazione.
Ma va avanti.