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I gioielli dei Maharaja, tra cascate di diamanti e gioielli mozzafiato

A Palazzo Ducale una scintillante mostra di gemme preziose che raccontano storie antiche

Marina Grasso
2 minuti di lettura

VENEZIA. Gioielli e pietre preziose, diamanti enormi, che narrano di corti favolose, di rituali e cerimonie, di tesori naturali, di maestria artigianale, di una cultura secolare nella lavorazione di pietre e metalli. Ma anche di rapaci mercanti coloniali, che dall'India li portarono in Europa.

È la grande arte della gioielleria che l'India ha sviluppato nel corso di cinque secoli, e che fino al 7 gennaio si può ammirare a Venezia grazie alla mostra "Tesori dei Moghul e dei Maharaja: La Collezione Al Thani", nella Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale.

Dopo essere stata esposta, negli ultimi anni, a New York, Londra, Parigi e Kyoto, l'inestimabile collezione dello Sceicco Hamad bin Abdullah Al Thani, membro della famiglia reale del Qatar, è arrivata a Venezia con 270 tra gioielli, pietre preziose, diamanti, oggetti in giada e pregiati manufatti indiani e d'ispirazione indiana degli ultimi cinque secoli: la più completa collezione del suo genere costruita personalmente dallo sceicco, appassionato d'arte e di storia.

Curata da Amin Jaffer, conservatore della Collezione Al Thani, e da Gian Carlo Calza, noto studioso di arte dell'Estremo Oriente, e con la direzione scientifica di Gabriella Belli, la mostra è una summa della storia dell'alta gioielleria indiana, che parte dallo stile di corte della dinastia dei Moghul (1526-1858), durante la quale i gioiellieri crearono autentiche opere d'arte con gemme di qualità eccezionale, fondendo cultura d'Oriente e Occidente.

Lo dimostra, tra i tanti pezzi eclatanti, un ciondolo cinquecentesco che s'ispira ai gioielli rinascimentali, nei quali perle barocche erano utilizzate per realizzare il corpo o il busto in composizioni spesso raffiguranti creature mitiche, non a caso scelto come immagine ufficiale della mostra. Il declino del regno Moghul, l'instabilità politica conseguente e il colonialismo britannico di metà del Settecento, determinarono il passaggio della committenza dell'alta gioielleria a nuovi e molto occidentalizzati governanti (maharaja, nawab o nizam), che grazie alle loro immense ricchezze poterono commissionare gioielli anche a celebri maison europee.

Nacquero così, nuovi stili, con antiche gemme montate in composizioni di foggia decisamente occidentale che assecondavano la moda dell'esotismo europeo, come dimostrano i più recenti gioielli in mostra a Venezia, di straordinaria bellezza e modernità, realizzati da anonimi artigiani indiani ma anche da Bulgari e Cartier.

Oltre alla rutilante bellezza di diamanti da 15 carati incastonati in girocolli abbaglianti, di decorazioni per turbanti di ingegnosa complessità e inimmaginabile valore, di un diamante (Arcot II) incastonato nella corona di Giorgio IV (poi venduto dal duca di Westminster, nel 1959 per assolvere gli obblighi con il fisco), sono tante le storie che questi gioielli, passati di mano in mano negli anni, raccontano. Anche con oggetti "d'uso quotidiano", se "quotidiani" si possono definire un portapenne e calamaio in oro con diamanti, smeraldi, rubini e zaffiri o un diffusore di acqua di rose tempestato di rubini, smeraldi e perle o, ancora, un'ampolla sferica di narghilè in giada ricoperta di rubini.

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