Se Salvini dice no e dopo sì

Gli amici più stretti del leader leghista dicono che, come Dio, Matteo Salvini è in cielo e in terra e in ogni luogo. Soprattutto in televisione, vorremmo qui soggiungere, ma sempre e comunque con un occhio attento ai sondaggi.

In effetti la presenza salviniana è comunque agevolata dall’alleanza con i Cinque Stelle dove, al di là delle presenze costanti e in crescendo del collega Luigi Di Maio, risalta un dato inequivocabile: che Salvini conosce la politica e, soprattutto, la sa fare. La sua, beninteso. Insomma, fra i due non c’è partita, almeno allo stato attuale delle cose, nel Governo e in Parlamento. Semmai, uno dei problemi della politica salviniana, è una sorta di alternarsi di toni di dichiarazioni per cui è stato definito “il Truce” – come ad esempio quella di queste ore a proposito della ragazza violentata e la minaccia di una “castrazione chimica” per i tre stupratori – temperando contestualmente il discorso come s’addice ad un ministro degli Interni.

Abbiamo parlato di alternanza, ma sempre e comunque sui generis, specialmente per quella disposizione che qualcuno ha liquidato sotto il termine di doppio gioco e che gli inglesi, che la sanno lunga e che sono i più cattivi, ne liquidano i protagonisti come double agents. Termine di certo esagerato, degno della filmografia di un James Bond piuttosto che di un Salvini al quale, semmai, è più consono il gioco del no e del sì, come nel caso della cittadinanza, dapprima rifiutata, al ragazzo Ramy di origine indiana (ma nato in Italia) che ha sventato una strage avvisando i carabinieri dall’autobus della paura e del terrore verso Linate e del quale, il giorno dopo, lo stesso Salvini ha detto: “È come se fosse mio figlio e per atti di bravura e coraggio le leggi possono essere superate”. Al che, il vicepresidente pentastellato ha tuttavia concluso di essere stato lui a convincere il suo collega di governo. E lo ius soli? Si vedrà.

Sul piano generale, Salvini è favorito rispetto a un Di Maio che, vedasi il suo risultato in Sardegna, non è nelle condizioni di affrontare un confronto elettorale ravvicinato mentre l’altro vicepresidente del Consiglio punta a consolidare la tendenza favorevole e mira, nel contempo, a costruire un’alleanza maggioritaria che non sia tuttavia vincolata all’accordo con Forza Italia. Un accordo che tiene in non poche regioni, ma che è stato rifiutato nella scelta e partecipazione a un governo alleandosi con uno dei nemici più acerrimi del Cavaliere, quel Beppe Grillo che sembra in questi giorni più silente del solito probabilmente nell’osservare i non brillanti risultati di un Di Maio, tuttora in trasferta negli Usa sfruttandone quella visibilità mediatica in concorrenza con quella salviniana, ma tanto in quanto si mostra, si fa vedere e parla.

In effetti, il più vero limite pentastellato è ravvisabile nella difficoltà se non impossibilità di trasformare un movimento di protesta in un partito di governo, anche e soprattutto perché la logica (e la storia) della politica insegnano che un movimento di protesta sia l’anima e la spinta dell’opposizione, e l’aver capovolto  questa logica costituisce il vero tallone d’Achille dei grillini. Il divario fra un Di Maio che non riesce ad allearsi con nessuno e un Salvini che si allea con tutti è sempre più evidente, con la conseguenza di sconfitte nelle elezioni locali, il che, tuttavia, non metterà in crisi il governo fino alle Europee, ma se dovesse anche lì verificarsi un’inversione dei rapporti di forza con una Lega col vento in poppa, la sua sorte politica sarebbe segnata.

Sullo sfondo, il Partito Democratico col suo nuovo segretario e l’alleato (di Salvini) Silvio Berlusconi. Per il primo si sta ponendo un problema non da poco, se fare accordi verso il centro come pare sia l’intenzione di un Calenda, oppure verso la sinistra e comunque con listoni onnicomprensivi come per il caso Pisapia. Per Forza Italia, pur nella consueta atmosfera di ottimismo che Berlusconi sparge a piene mani, restano i problemi di sempre, a cominciare dalla voluta assenza di una struttura di partito degno di questo nome, suffragata da dichiarazioni, con un Antonio Tajani che dallo scranno più alto d’Europa pare il più attento e puntuale, pur nei toni mai acuti e comunque pieni di buon senso politico.

Il punto, anzi il fatto, è che nel sì di Salvini all’alleanza con Forza Italia, al di là delle intenzioni maggioritarie, prevale il non detto ma il praticato: la cattura dei voti e dei consensi in casa dell’alleato. Salvini ama dire spesso: quando il gioco si fa duro… Un avvertimento, ma anche per l’alleato.

Aggiornato il 29 marzo 2019 alle ore 11:20