Palermo

Il dibattito sulla sinistra: ma in Sicilia non siamo mai stati forza di cambiamento

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Bella domanda, quella di Enrico del Mercato: «Chi ha ucciso la sinistra siciliana »? Di getto mi verrebbe da dire: perché milioni di lavoratrici e lavoratori, di docenti e di ceto medio in Italia e in Sicilia si spostano a destra?

Perchè cambierebbero verso in Sicilia come in Italia ed in Europa? Perché cresce il bisogno dell’individualismo e non della solidarietà? E perché nessuna delle offerte politiche della sinistra è riuscita, in Sicilia, ad andare oltre la testimonianza? Perché, questo mi pare il punto, se guardiamo il mondo da sotto e non dall’interno del ceto politico, vediamo come nessuna idea, opzione strategica, nessun riferimento ad un blocco sociale, esistente o in costruzione, è risultato vincente. Non lo era quando il Pci era operaista in una terra di dipendenti pubblici e di terziario; non lo era quando la vocazione a rappresentare i ceti medi si era affermata; e ancora non lo fu quando il tema della lotta alla mafia divenne il discrimine fondamentale della battaglia politica siciliana.

Anzi, a questo proposito, la marginalità fu ancora più evidente di fronte alla novità della rottura operata dall’interno del partito più compromesso, la Dc, attraverso l’esperienza di Piersanti Mattarella e di Leoluca Orlando. E perché mai? Perché la sinistra, diversamente che in altri luoghi che del Mercato richiama, non è mai diventata una forza stabilmente di governo? Solo perché quando ha governato non ha mai prodotto risultati brillanti?
Forse qui c’è una parte delle ragioni, ma forse non ci spiega il fenomeno. Gruppi dirigenti non all’altezza? Bufalini, Li Causi, Occhetto, La Torre, nomi che non fanno pensare di sicuro alla fragilità, alla scarsa capacità di direzione, anzi… Vorrei prendere in considerazione per un momento due paradigmi: l’autonomia siciliana, che spiega tante cose, ed un modello sociale sostanzialmente inerte.

Non vale generalizzare, lo so, però penso che autonomia e composizione, forse vocazione sociale, siano due tracce possibili. Il Pci nasce come partito autonomista e la Sicilia ha una vocazione autonomista. La declinazione dell’autonomia è la tendenza all’autogoverno, il “ quasi Stato” di Togliatti; è l’identità di un popolo che si è mescolato forse come nessuno mai con altre tradizioni figlie delle dominazioni continue da Nord a Sud del mondo. Ma è anche costruzione di una “enclave” parassitaria sorta attorno alla Regione siciliana, alla cultura delle famiglie imprenditoriali, a un uso indiscriminato e selvaggio delle risorse pubbliche di una scala vasta di interessi sociali che hanno finito per trovare una comune collocazione, una contaminazione, dentro un assetto sostanzialmente reazionario sul piano politico.

Questo modello doveva contemporaneamente alimentarsi di un patto con le classi dirigenti nazionali, la cosiddetta vocazione ascaristica di assoggettamento culturale e politico e di una politica redistribuiva in grado di alimentare quell’indistinto modello sociale che metteva insieme il disoccupato e l’imprenditore.

Penso che tutte queste cose siano estranee alla crescita della sinistra, sia nella versione post fascista che in tutti gli anni a seguire. Insomma, la sinistra, dal PCI ai DS e a tutto il resto, è sostanzialmente rimasta marginale a quel modello ed a quel mondo.

Anche quando ha tentato di farlo non è mai stata, per fortuna, credibile. Le ragioni, però, stanno nella Sicilia, nel suo modo d’essere, e nell’incapacità di avere idee buone per cambiarla. Nel sapere interpretare quei processi e nel sapere essere soggetto reale di cambiamento. La sinistra, in Sicilia, in tutte le sue versioni, non è mai stata forza di cambiamento.
Ecco, più che questo o quel dirigente, mi piace rispondere così: non c’è qualcuno che ha ucciso la sinistra, non c’è nessuno che ha saputo cambiare la Sicilia.

L’autrice è assessore comunale alla Pubblica istruzione