Palermo

#RepPalermo20: Dalla mafia delle stragi a quella che si nasconde, il racconto della Sicilia da un attico alla redazione

Il giornale aveva uffici di corrispondenza a New York, Londra, Beirut e anche a Varsavia. Io a Palermo lavoravo da solo, nella mia soffitta. Mi dicevano: ora apriamo. E poi nel 1997, l’apertura ci fu

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C’erano uffici di corrispondenza a Mosca e a New York, a Berlino, Londra, Parigi, Gerusalemme e, se non ricordo male, anche a Varsavia dove soffiava il vento di Solidarnosc. E poi le redazioni di Bologna, Milano, Napoli, Firenze, Torino. Invece io da quasi vent’anni continuavo a lavorare a casa mia, un piccolo appartamento all’Acquasanta. Il fax vicino al letto che vomitava rotoli di carta anche di notte, una stampante, le macchine per scrivere (una “Lettera 22” e una vecchia “Valentine”) e poi uno di quei primi computer con i “dischetti”, libri, appunti sparsi in centinaia di bloc notes, fogli, lettere, montagne di quotidiani ordinati in un ripostiglio-archivio dove custodivo anche alcuni documenti riservati e i quarantadue volumi della sentenza-ordinanza del maxiprocesso.

Scrivevo a casa ma all’occorrenza anche nel primo bar che trovavo sulla strada, di ritorno da qualche scorribanda nelle province più lontane dell’Isola, dietro una scrivania de L’Ora, in un sottotetto dove per un certo periodo si erano acquartierati i colleghi dell’emittente Telecolor. Palermo era ogni giorno in prima pagina — la guerra di mafia, i delitti eccellenti, la solitudine di Falcone, il pool, le trame di Lima e di Ciancimino, gli appalti dei Cassina, i Cavalieri del Santo Sepolcro, la “primavera” di Orlando, la Regione occupata dagli amici di Cosa nostra, gli scandali delle grandi banche siciliane, il Corvo, l’attentato all’Addaura — e Repubblica, ormai primo quotidiano italiano, non aveva una sua sede a Palermo.

Solo quell’attico all’Acquasanta. Eppure Palermo in quella stagione era centrale in Italia e per l’Italia, tanto strategica che ogni sei mesi mi arrivava da Roma la solita voce: «Ora apriamo, ora apriamo». Ma io intanto continuavo a rincorrere da una parte all’altra della città gli amici che mi avevano aiutato a far diventare Repubblica il quotidiano che più di altri stava raccontando la mafia al Paese, una squadra che anno dopo anno si irrobustiva sempre più. Prima c’era solo Peppino Cerasa, poi arrivò Umberto Rosso, poi Franchino Viviano e Alessandra Ziniti, per ultimo Lucio Luca. Ufficialmente il corrispondente dalla Sicilia ero io, in realtà lo eravamo tutti perché tutti - ogni sera - inviavamo (nei primi Anni Ottanta ancora si “dettava” ai dimafonisti) i nostri articoli a Roma.

Il primo corrispondente di Repubblica da Palermo era stato Alberto Stabile, che già collaborava con l’Espresso e aveva visto - già alla fine del 1975 - i “numeri zero” del giornale. Poi quando Alberto fu chiamato alla redazione centrale, fu la volta di Nino Sofia. E poi ancora, alla fine del 1979, toccò a me. Venivamo tutti dalla “scuola” de L’Ora.

Per diciassette anni abbiamo descritto una Palermo e una Sicilia che spesso non trovava adeguato risalto sugli altri giornali, abbiamo scavato intorno a personaggi che avrebbero preferito restare nell’ombra, ci siamo infilati dentro una città che era un labirinto. Poi, finalmente, quell’«ora apriamo, ora apriamo» si rivelò più di una voce. Nella primavera del 1997 cominciarono i sopralluoghi per l’individuazione di una sede, ad inizio estate stava già nascendo la redazione di Repubblica in via Principe di Belmonte.

Formalmente non ho mai fatto parte di “Repubblica Palermo”, nel senso che sono sempre stato in organico al Nazionale. Ma c’è sempre una certa distanza fra forma e sostanza: dopo diciassette anni il mio giornale aveva “aperto” nella città dove avevo mosso i primi passi da cronista riproducendo a Palermo un “modello” che aveva rivoluzionato - prima con Scalfari e poi con Mauro - il giornalismo in Italia.

Lo stanzone della “cronaca” era nell’altra ala dei locali, io avevo una stanza tutta per me vicino a Elsy, Stefania, Giuseppe, Piero e il grande Giovannino detto “Bambagia”, tutti i ragazzi della segreteria. Con le pagine palermitane di Repubblica appena stampate e 14 giornalisti dietro la porta accanto, nell’autunno del 1997 per me è iniziata una nuova vita. Non inchiodato ogni giorno “alla guardia del bidone” come corrispondente, finalmente potevo uscire dalla cronaca quotidiana e fare quello che avevo sempre sognato di fare: l’inviato. Dalla Sicilia. E nel mondo.

Facevo il giornalista da quasi vent’anni e non avevo mai lavorato in una redazione. Una scoperta molto felice. Fra i tanti capiredattori che sono passati da qui, ne voglio ricordare due. Niente nomi però. Da uno ho imparato “come si fa” un giornale, la costruzione quotidiana e ragionata delle pagine, lo scrupolo nel “passare” gli articoli dei colleghi, la passione nel migliorare ed esaltare il lavoro degli altri.

L’altro invece si era presentato a Palermo qualche giorno prima del suo insediamento come caporedattore per cercare casa. Non ha chiamato né contessine né costruttori per trovare il suo appartamento e nel tempo libero andava in giro per la città - palazzo per palazzo - con in mano un lungo elenco di annunci immobiliari. Impassibile alle sirene dell’accoglienza, ha fatto tutto da solo. Dettagli che, qui a Palermo, non sono proprio dettagli.

Città che nel frattempo è cambiata. Tanto e in meglio. Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, Palermo è stata “sdoganata” ed è diventata in tutto e per tutto “italiana”. Più libera, pur con tutti i suoi problemi. Forse anche più difficile da raccontare per noi di Repubblica che ne abbiamo seguito ogni giorno i suoi mutamenti, ne abbiamo respirato gli umori, interpretato le sue ansie e i desideri.

Sono passati vent’anni e adesso c’è anche una mafia che non spara più ma che si è nascosta dietro la maschera di qualcuno che - esattamente come si usava un tempo - manovra fra “famiglie” e politica, fra affari e crimini. Gioco di specchi. Ma quella puzza si sente sempre.
Dopo vent’anni di Repubblica a Palermo, ai più giovani colleghi che qui hanno quotidianamente il dovere e l’onore di informare i siciliani auguro altri vent’anni di emozioni come quelli che se ne sono andati. E li invito anche a non farsi suggestionare più di tanto da tutti quelli che ripetono «che la mafia non c’è più». Dopo ogni “emergenza” criminale, stagione dopo stagione si è sempre detto: non c’è più. Sappiamo come è andata in passato. Non c’è più quella rumorosa e sanguinosa dei Corleonesi, definitivamente sconfitta dallo Stato. Ce n’è un’altra dal sapore molto antico. Anche se si manifesta “presentabile” e sorridente. Occhio, qualcosa la state vedendo in queste settimane di vigilia elettorale dove un “mucchio selvaggio” si è già posizionato in quasi tutti gli schieramenti.

E alla fine - tornando a quell’estate del 1997 quando erano quasi finiti i lavori di ristrutturazione in via Principe di Belmonte - un piccolo ricordo. Un giorno ho ricevuto una telefonata da un personaggio abbastanza noto in città che mi ha chiesto con molta naturalezza: «Ma i “nostri“ non devono lavorare alla ristrutturazione della sede?».

Non ho avuto bisogno di chiedergli chi fossero “i nostri”, qualche giorno prima l’avevo visto confabulare in via Ruggiero Settimo con il figlio di un famoso capomafia che aveva un’impresa edile. I “nostri” restarono i “suoi”. Repubblica Palermo stava cominciando con il piede giusto.