Milano, 4 dicembre 2017 - 09:08

Procura di Roma contro la sentenza «mondo di mezzo»: «È mafia»

L’atto d’appello contro la decisione dei giudici del Tribunale che ha assolto gli imputati dall’accusa più grave di associazione mafiosa e che «hanno fatto propri gli stereotipi, secondo i quali la mafia è quella con la coppola e la lupara, che spara e uccide»

(Ansa) (Ansa)
shadow

Se il tribunale di Roma non ha riconosciuto il reato di associazione mafiosa per il “mondo di mezzo” capeggiato da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi (comunque condannati a pene pesanti: 20 e 19 anni di carcere) è perché ha fatto una lettura distorta di quanto emerso durante il processo. Una «visione atomistica dei singoli fatti ricostruiti, omettendo di rilevare anche i più ovvi collegamenti e cercando di decostruire quelli evidenti». Ma soprattutto, i giudici di primo grado hanno dimostrato di essere vittime, facendoli propri, dei «più diffusi stereotipi in materia di mafia, secondo i quali la mafia è solo quella con la coppola e la lupara, quella che spara e uccide ovvero è quella che parla calabrese o siciliano». Una sorta di pregiudizio, che non tiene conto «della evoluzione della giurisprudenza in materia, che invece è da tempo attenta ad individuare le trasformazioni socio-criminali delle mafie, sia quelle tradizionali che quelle nuove, capaci di insediarsi in territori diversi da quelli tradizionali con metodi nuovi e diversi, ma con le identiche finalità di acquisizione di potere economico, mediante l’assoggettamento e l’omertà». Infine i giudici di primo grado hanno spesso travisato le argomentazioni dei pubblici ministeri, utilizzando «la tecnica argomentativa di attribuire alla pubblica accusa una tesi diversa da quella sostenuta, per poi confrontarsi solo con quella e non con quanto effettivamente sostenuto».

L’atto d’accusa

Così l’atto d’appello della Procura di Roma contro la sentenza che il 20 luglio scorso ha assolto gli imputati di “Mafia capitale” dall’accusa più grave – l’associazione mafiosa, per l’appunto – si trasforma in un atto d’accusa contro il tribunale che ha pronunciato quel verdetto. Motivato in oltre 3.000 pagine, alle quali il procuratore Giuseppe Pignatone e gli aggiunti Michele Prestipino, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini, insieme al sostituto Luca Tescaroli, replicano con un documento molto più snello, tutto incentrato sul reato negato: la mafia, e di conseguenza l’aggravante del metodo mafioso esclusa per alcuni imputati che rispondevano di accuse diverse. Tra le recriminazioni dei pubblici ministeri ci sono alcuni errori di fatto attribuiti ai giudici. Per esempio aver smentito che la mafiosità della vecchia banda della Magliana sia «rimasta controversa negli esiti giudiziari», a causa di due sentenze definitive dalle conclusioni opposte.

«Carminati non è un delinquente comune»

Invece, si rammarica la Procura, «il tribunale, seguendo sul punto quanto affermato dalla difesa di Carminati nella discussione, prende in considerazione solo la seconda decisione e non la prima, che evidentemente mostra di non conoscere». Anche a proposito delle due associazioni per delinquere “semplici” in cui i giudici hanno scisso la presunta associazione mafiosa – una dedita all’usura e alle violenze, l’altra finalizzata alla corruzione, nelle quali compare al vertice sempre Carminati – i pubblici ministeri sono piuttosto sferzanti: «Carminati è sempre Carminati e non può essere un delinquente da strada a capo di una banda di delinquenti da strada quando staziona al benzinaio per poi trasformarsi in un abile faccendiere dedito solo alla corruzione quando fa affari con Buzzi, per poi ritornare, ma solo per un momento e solo uti singulus, delinquente di strada quando si tratta di risolvere, per Buzzi, una controversia con soggetti di elevato spessore criminale».

Mafia Capitale, gli imputati e le sentenze
Massimo Carminati

Le prove del «metodo mafioso»

Ne consegue che «questa operazione di segmentazione dei fatti provati, e financo della personalità del capo e promotore della organizzazione, sia del tutto artificiosa e scollegata dalla realtà, funzionale solo a giustificare la esclusione del carattere mafioso della associazione». Sulla corruzione e le pressioni degli imputati per ottenere ciò che volevano nei rapporti con la pubblica amministrazione, nonché per garantirsi l’omertà di alcuni personaggi coinvolti nei loro affari, i giudici hanno ritenuto che non ci fosse la prova di intimidazioni e imposizioni tali da intravedere il cosiddetto “metodo mafioso”. Pure in questo caso la replica della Procura è netta e severa: «Il tribunale, che evidentemente non riesce a liberarsi da quel modello oleografico di associazione mafiosa stigmatizzato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, confonde la forza di intimidazione con le modalità attraverso le quali sono veicolate le minacce da parte del sodalizio». Per i pubblici ministeri non esistono solo quelle violente, e non è necessario aver letto Leonardo Sciascia per sapere quanto più «pericolose e insidiose siano le minacce oblique e implicite, queste sì tipicamente mafiose».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT