4 febbraio 2018 - 09:13

Goran Bregovic, «La mia musica senza frontiere»

Il compositore domenica 4 febbraio nella Sala Santa Cecilia accompagnato da un’orchestra di 18 elementi con le canzoni del suo disco «Three letters from Sarajevo»

di Laura Martellini

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Goran Bregovic canta la diversità religiosa e la convivenza pacifica nel nuovo album Three letters from Sarajevo, e in un tour domenica 4 febbraio alle 21 a Roma, all’Auditorium. Il tema è la frontiera: «Quella di Sarajevo — spiega — l’unica dove si incontravano ortodossi, cattolici, ebrei e musulmani. Mio papà è cattolico, mamma ortodossa, mia moglie musulmana. E mi sento anche un po’ gitano, forse perché per mio padre colonnello era inaccettabile che fossi musicista. “Un mestiere da gitano”, diceva». Goran è andato avanti, e il suo melting pot lo porta ovunque. Spesso in Italia.

Un amore ricambiato.

«Mi invitano spesso a suonare e ne sono felice: non solo per la mia musica, ma per il fatto che la cultura e suoni di un piccolo Paese come il mio siano apprezzati da una nazione con una tradizione straordinaria».

Quali sonorità nell’album?

«Qualche anno fa, scrissi su commissione, in forma di tre lettere indirizzate ai profeti, un concerto per orchestra sinfonica e tre violini suonati secondo le tradizioni classica (cristiana), klezmer (ebraica) e orientale (musulmana). Ho composto poi altri brani, perfetti per artisti di fedi diverse che stimo: la spagnola Bebe, l’israeliano Asaf Avidan e l’algerino Rachid Taha. Così li ho invitati a collaborare».

La musica favorisce l’incontro?

«Ha un valore universale e arriva dove la lingua, la dialettica e la politica non riescono. Il primo linguaggio umano. Solo dopo è nata la parola. Credo nella musica come strumento di unione e integrazione quando ai concerti vedo il pubblico emozionarsi e ballare all’unisono canzoni d’amore e di guerra».

Sta indicando un ruolo per gli artisti.

«Da soli non possono cambiare le cose, ma lasciare lungo il loro cammino piccole luci. La strada da illuminare è lunga, ma anche le piccole luci servono a rischiarare».

Come vede i prossimi anni?

«L’intolleranza tra popoli ha radici profonde, ma si deve cambiare. La più grande lezione che un uomo possa imparare oggi è vivere con la differenza, imparare a comunicare».

Eppure sembra prevalere la chiusura.

«Un atteggiamento antistorico. Le civiltà si sono formate grazie alle migrazioni. Ci sono persone che fuggono da guerra e povertà, ma con un’intelligenza e una preparazione in grado di arricchire i nostri Paesi. Steve Jobs era figlio di un emigrato siriano! I profughi sono una risorsa, non solo un problema».

È autore di colonne sonore memorabili.

«La vedo come una parentesi artistica della mia vita, molto fortunata, ma che reputo conclusa. Preferisco dedicarmi a un altro tipo di composizione musicale».

Al festival di Sanremo lei è stato ospite.

«Certo, e mi sono divertito molto. Ho suonato con Samuele Bersani».

Dove vive oggi?

«Quando è scoppiato il conflitto nei Balcani, mi trovavo a Parigi ed è stato naturale rimanere lì. È una città che ha una lunga tradizione di accoglienza».

La «sua» Sarajevo?

«Molto piccola, ha sempre avuto una grande vitalità, simile alle metropoli europee. È stata crocevia tra diverse culture che hanno animato la vita intellettuale e sociale. Era così prima, e niente è cambiato durante e dopo la guerra».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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