Milano, 2 dicembre 2017 - 21:02

La tentazione dei Cinque Stelle: sostenere il governo del presidente

La scelta di realpolitik nell’era di Di Maio. Consensi a rischio senza fase costruttiva

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La nebbia degli slogan tradizionali vela la vera strategia. Ci sono un obiettivo e una tentazione, nel futuro prossimo del Movimento Cinque stelle. Con la nuova legge elettorale e con le diffidenze e le riserve persistenti, difficilmente raggiungerà percentuali tali da permettergli di governare. L’obiettivo, dunque, è una vittoria minore ma ugualmente ambiziosa: avere seggi sufficienti per impedire che si formi un esecutivo senza o peggio contro la formazione di Luigi Di Maio e di Davide Casaleggio. In quel caso diventerebbe prepotente la vera tentazione dei Cinque Stelle, accarezzata per non restare fuori dai giochi: appoggiare un «governo del Presidente», se di fronte al pericolo dell’ingovernabilità il capo dello Stato, Sergio Mattarella, dovesse fare un appello al senso di responsabilità di tutte le forze politiche. È una ipotesi appena accennata, e tenuta di riserva, sapendo che gli effetti del sistema elettorale rappresentano un’incognita. Ma tutti i sondaggi, ufficiali e riservati, concordano nel ritenere improbabile che emerga dalle urne una maggioranza. Può darsi che in quel caso il Quirinale, dopo un incarico esplorativo senza esito, rimandi il Paese al voto: i Cinque Stelle non si metterebbero di traverso. Oppure è possibile che chieda il sostegno a un governo plasmato nel segno dell’emergenza. In questo caso, a sorpresa potrebbe trovare la sponda dei seguaci di Beppe Grillo.

Non si tratta di un soprassalto di generosità nei confronti dell’odiata «partitocrazia». Nella scelta si indovina una buona dose di realpolitik: la consapevolezza che il Movimento deve passare da una fase di opposizione totale a una stagione più costruttiva. Anche perché i suoi consensi, che ormai si attestano tra un quarto e un terzo circa dell’elettorato, sono considerati in bilico: o vengono spesi in qualcosa di diverso dalla pura contestazione del passato, o rischiano di calare bruscamente verso percentuali inferiori al venti per cento. La sfida di governo sarebbe dunque una sorta di antidoto a un ripiegamento del quale si avvertono qui e là i sintomi. D’altronde, la designazione di Di Maio come candidato premier certifica, di per sé, la scommessa su un’uscita «moderata» dalla crisi e su un possibile approdo governativo. Fa il paio con il ruolo marcatamente defilato assunto da Grillo nella nuova fase. La virata in materia di moneta unica, la posizione meno ostile alla Nato, la ricerca di rapporti con le istituzioni finanziarie e con il Vaticano sono tutti passaggi obbligati per tentare di scalfire il muro di diffidenza che il Movimento si è costruito intorno; e che finora lo proteggeva ma lo isolava, anche, dal virus del dialogo con gli altri. Il colloquio a Washington con il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, è stato del tutto casuale, è vero. Eppure ha creato un contatto prima inesistente. È stato organizzato in fretta e furia quando Di Maio ha saputo che l’ex ambasciatore Usa presso la Santa Sede, Francis Rooney, col quale si doveva vedere, tardava perché si stava congedando da Parolin, negli Stati uniti per i lavori della conferenza episcopale americana. In due ore, con un giro febbrile di telefonate, è stato combinato un incontro in Nunziatura non col leader dei Cinque Stelle, ma con Di Maio nelle vesti istituzionali di vicepresidente della Camera; e col patto di non chiamare né fotografi né giornalisti: impegno rispettato. Quel colloquio col «primo ministro» di Francesco ha permesso di alzare il livello di un viaggio che per il resto aveva seminato qualche tensione tra la delegazione grillina e l’ambasciata italiana a Washington.

L’esito di questa «strategia della moderazione» è ancora in chiaroscuro. Dentro e soprattutto fuori dai confini italiani, il pregiudizio rimane diffuso e radicato. E quando i Cinque Stelle si accreditano come forza di governo, subito si sentono chiedere chi candideranno al ministero dell’Economia o agli Esteri. Gli alleati occidentali vogliono essere rassicurati. E non solo. Si è saputo che di recente alcuni parlamentari del M5S si sono confrontati con una dozzina di investitori internazionali. Non è la prima volta: anche loro vogliono capire, al di là delle promesse e degli impegni verbali. Ma lo vogliono soprattutto gli italiani. Fino a Natale Di Maio batterà, partendo da Milano, l’intero Nord. Non è tanto per calamitare voti: gli basterebbe abbassare le difese e l’ostilità nei confronti del Movimento. Ma per smentire l’immagine di una formazione malata di dilettantismo e di estremismo, occorrerà qualcosa di più. Si tratta di bilanciare con profili più esperti e competenti una classe dirigente finora un po’ raccogliticcia; e di puntellare l’identikit troppo giovane dello stesso Di Maio. La squadra di governo da presentare prima delle elezioni verrà calibrata su criteri diversi dal passato, almeno nelle intenzioni. Si potrebbe perfino arrivare a una sorta di preselezione prima di votare per le «Parlamentarie», che servono a formare attraverso la piattaforma digitale Rousseau di Casaleggio le liste per il Parlamento. Sarebbe una cesura col passato, da spiegare e far digerire ai militanti. Eppure non c’è alternativa: la resa dei conti con la realtà sta arrivando anche per il primo «partito-internet».

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