Milano, 10 ottobre 2017 - 21:50

Legge elettorale, Di Battista sbagliò piazza: contestato il leader M5s

Il governo mette la fiducia: protesta in aula di Mdp e “5 stelle’. Dai banchi delle opposizioni volano insulti e rose all’indirizzo della ministra per i Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro e della presidente della Camera Laura Boldrini

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ROMA I suoi colleghi in aula si stanno esercitando con la lettera V: «Vergogna, venduta», urlano all’indirizzo della ministra Anna Finocchiaro che annuncia la fiducia e della presidente Laura Boldrini, rea di far continuare la seduta contro il loro parere. Non passano ad altre lettere e a ben più pesanti insulti (li mormorano solo sottovoce) per non essere sospesi. In quel caso non potrebbero partecipare all’unico voto segreto, quello finale. Lui, invece, è fuori del palazzo, perché è quello il ruolo he gli è stato affidato da quando Di Maio è diventato il candidato premier.

Alessandro Di Battista raggiunge la piccola folla a grandi falcate, convinto che vi siano solo grillini adoranti. Ma in piazza Montecitorio ci sono gli ex forconi di Antonio Pappalardo, i no vax, dei leghisti inneggianti all’autonomia del Veneto e della Lombardia e un piccolo gruppo di neo-borbonici con il vessillo del regno delle due Sicilie.

Il «Dibba» è carico e non se ne rende conto Si toglie la giacca, prende un megafono, poi lo sostituisce con un altro, perché il primo era difettoso e comincia la sua arringa: «Gentiloni ha messo la fiducia sulla legge elettorale, come, prima di lui, hanno fatto Mussolini e Renzi». I quali, nell’immaginario grillino, sono la medesima cosa, o, meglio, persona.

Dalla folla si leva un solo «vaffa» stentoreo. Quindi i «vaffa» si moltiplicano, gridati, urlati, cantati. Di Battista è interdetto, ma non ha ancora chiaro il quadro della situazione e continua. Finalmente qualcuno nella folla lo illumina: «Abusivo». Il deputato grillino si rende conto di aver sbagliato platea e va via, non prima di essersi beccato un «servo della Goldman Sachs».

Intanto alla Camera, alle ore 15 e 45 in punto, è scoppiato il putiferio. Non che prima tutto filasse licio come l’olio. Alle 15 Roberto Giachetti, che presiedeva, si prende la sua buona dose di insulti. Più dagli scissionisti che dai grillini, a dire il vero. «Quello deve stare attento», sibila Piero Martino, neo portavoce di Roberto Speranza. Tre quarti d’ora dopo però la situazione peggiora. Boldrini, alla quale Giachetti ha ceduto il più alto scranno, agita il campanello, ma il suono è sovrastato dalle urla.

Alfredo D’Attorre declama il suo intervento a gran voce, ma quasi si strozza, tanto che l’ex compagno di partito Emanuele Fiano lo soccorre offrendogli una mentos: «Sei l’unico che ha fatto qualcosa per me», lo ringrazia lui. Roberto Fico si sgola e si sbraccia a favore di telecamere e poi, felice ed afono, confessa di essersi divertito un mondo. Dai banchi delle opposizioni, dove gli scissionisti tentano di eguagliare le gesta dei grillini, vengono buttate anche delle rose. Ignazio La Russa, che pure è contrario alla fiducia, ne raccoglie una e la offre alla ministra Finocchiaro.

Finisce la seduta, si spengono le telecamere e i Cinque stelle si zittiscono improvvisamente. Come se non fosse accaduto niente. Carlo Sibilia si getta sull’aperitivo, gli altri sciamano via. L’appuntamento con la protesta è per oggi a ora di pranzo, davanti a Montecitorio. Stavolta ci saranno i pentastellati e Di Battista potrà fare il suo show senza essere contestato sempre che non tocchi a Di Maio. O a Grillo, perché potrebbe esserci pure lui, oggi o domani.

In Transatlantico restano i deputati del Pd che commentano Napolitano. Uno scrupoloso Dario Parrini rilegge l’Italicum: «Quello che lui contesta era anche nella legge che ha firmato da presidente». Gli altri ripetono come un mantra le parole di Renzi: «Questo è l’ultimo treno che passa, facciamo il possibile per non perderlo». E per farlo arrivare in stazione prima del 5 novembre

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