Polvere da sparo e detonatore. Il fotogiornalismo e la guerra

LifeVietnamTollLe fotografie fecero perdere la guerra del Vietnam agli Usa: è un luogo comune dell’epica fotogiornalistica che molti fotoreporter pensano di poter sottoscrivere ancora.

Le prove a sostegno sono le icone stranote di quella sanguinosa eruzione calda della guerra fredda: la Napalm Girl di Nick Ut, il generale Loan che spara alla testa del Vietcong di Eddie Adams, il bonzo in fiamme di Malcom Brown, i cadaveri di My Lai di Ron Haeberle… O più in generale l’opera omnia di Larry Burrows, Hors Faas, Philip Jones Griffiths…

Il risveglio delle coscienze e la ribellione pacifista, secondo questa benintenzionata e nobilitante ipotesi, sarebbero stati il frutto di quello che in quegli anni Susan Sontag chiamò “eroismo della visione”, ossia la convinzione che la fotografia sia in grado di rivelare verità immediatamente morali, che la ragione fatica a scoprire.

Su questa convinzione si regge gran parte dell’autogiustificazione etica del mestiere del fotogiornalista, come  incaricato di una missione etica, quella di (letteralmente) “aprire gli occhi” sulle ingiustizie del mondo, di mostrare da vicino il legno storto dell’umanità.

Il fotoreporter, insomma, come demiurgo, più che come funzionario di un servizio utile alla comunità (l’informazione). Fra le tante rivoluzioni fotografiche più o meno autentiche di questi anni, e oltre la crisi materiale della professione, questo vangelo credo sia ancora autorevole.

In questi giorni, però, la generosa rubrica fotografica di Time recupera, non so bene perché non essendoci speciali anniversari, una storia già raccontata qualche anno fa, quella del giorno (il 27 giugno 1969) in cui Life uscì in edicola con una copertina e dieci sconvolgenti pagine di ritratti di soldati americani morti in Vietnam.

I ritratti, per la precisione, di tutti i 242 militari americani morti nella settimana dal 28 maggio al 3 giugno, una settimana qualsiasi di una guerra non qualsiasi. One week death toll, il pedaggio settimanale della morte.

Fototessere. Da studio di paese, o da cabina automatica. Prese dai documenti di leva o dagli album di casa, fornite dalle famiglie, in divisa, in borghese, volti seri, volti sorridenti. Accompagnate da tre sole righe anagrafiche: nome, età, grado, provenienza.

Le reazioni dei lettori, pubblicate in un numero successivo, furono devastanti. In un senso o nell’altro: ci fu anche chi accusò Life di essersi allineata con i nemici della patria. La maggioranza esprimeva disorientamento morale e l’impressione di guardare in faccia ragazzi morti in una guerra “incomprensibile”.

Non erano fotografie shock, di quelle che per Roland Barthes mancano il loro obiettivo perché si appropriano anche della sofferenza del lettore.

Non erano fotografie in cui un autore consapevole avesse infuso il proprio sdegno, la propria visione critica, la propria insurrezione etica contro la guerra. Erano fototessere nate senza alcuno scopo di informare, o denunciare.

Se quelle fototessere avevano un’ideologia propria (e l’avevano), era semmai quella del disciplinato controllo sociale, della classificazione identitaria che fa di ogni cittadino un suddito dello Stato e, se giovane, un potenziale soldato.

A fare la differenza, a produrre lo shock, fu ovviamente il sottotesto implicito, ma irruente, di quella presentazione apparentemente fredda, proprio perché apparentemente fredda.

La griglia cimiteriale di una strage che appariva ineluttabile, una macchina tritacarne, ma che qualsiasi americano sapeva non essere una catastrofe naturale.

LifeVietnamToll2Certo, se i ritratti dei morituri erano fotografie “senza intenzione”, la loro messa in pagina in quel modo di intenzioni non poteva non averne.

Dobbiamo dunque pensare che il layout e l’editing sostituirono, in quel caso, l’intenzione etica del fotoreporter? Forse sì.

Il testo che accompagnava le foto, tuttavia, esibiva una sorta di distacco politico. “Non vogliamo parlare a nome dei morti.  Dalle lettere di molti di loro si deduce che erano molto convinti di essere in Vietnam. Tuttavia, dobbiamo guardare le loro facce”.

Quelle foto erano ciò che il titolo diceva di loro: ricevute terribili del pagamento di un pedaggio. In cambio di quale servizio? La risposta era apparentemente lasciata ai lettori.

Perché siamo in quella guerra? Perché dobbiamo offrire le vite dei nostri ragazzi a quella guerra? La domanda implicita era questa. La stessa che sicuramente già si faceva ogni singola famiglia al ritorno del corpo del suo ragazzo avvolto nella stars and stripes.

In quella forma, la domanda risuonava nello spazio pubblico. Neppure Life, credo, creò quella coscienza. Dopo tutto, era un rotocalco conservatore. Ma forse aveva antenne sufficienti nell’opinione pubblica per capire che il vento era cambiato.

Che la giustificazione politico-ideologica della guerra cominciava a sgretolarsi nella coscienza dei buoni americani. E mise alla prova questa intuizione nel modo contemporaneamente più brutale e apparentemente non ideologico.

Come se a Life qualcuno volesse dire: questa volta parlano le facce, i fatti, non i racconti di un giornalista.

Ma non possiamo fermarci qui. Il cimitero d’inchiostro di Life arriva un anno e mezzo dopo l’esecuzione del vietcong di Adams, ma precede di pochi mesi la rivelazione fotografica della strage di My Lai, e di tre anni la Napalm Girl di Ut.

Le date sono importanti, mostrano che la svolta cruciale nell’opinione pubblica americana fu lenta a maturare, e fu più accompagnata che determinata dalle immagini.

La brutalità anagrafica delle pagine di Life scopriva semplicemente una domanda nascosta. I fotogiornalisti allora nutrirono quella domanda di indizi sulla direzione in cui cercare una risposta.

È questo, dunque, che siamo andati a fare laggiù?, suggerivano. Anche noi ci siamo fatti la vostra stessa domanda, dicevano ai buoni americani, e vi mostriamo quello che abbiamo trovato. Così ora potrete farvi altre domande, per esempio: è necessario che tutto questo continui? Volete altre foto così?

No, credo non ci sia alcuna contrapposizione fra il cimitero di Life e i reportage consapevoli dei suoi inviati fotografi. La dialettica che si può intravvedere fra di loro credo dimostri che le fotografie non sono altro che il detonatore di una esplosione morale.

La polvere da sparo della rivolta politica e morale però non esce dai rullini dentellati. Deve esserci già, nella società, nelle case, nelle strade.

La fotografia non crea dal nulla nessuna morale. Ma se c’è, sa dove trovarla.

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4 commenti

  • Polveri bagnate?
    Il Fotocrate

  • Se la fotografia è solo il detonatore perché allora non scoppia più nulla.... si chiama nichilismo forse?

  • Damiano, il sono un giornalista e non un poeta, non vedo perché un fotogiornalista debba fare arte.
    L’informazione non deve nepoure palesare morali ma semplicemente fornire elementi di conoscenza che aiutno il cittadino a formarsi opinioni informate, per prendere decisioni su se stesso e sugli altri.
    Niente di più ma niente di meno.
    Il Fotocrate

  • D'accordo con la conclusione del post. La fotografia fa palesare la morale agli occhi di chi guarda. Non sempre c'è una morale però, e non sempre è di chiara interpretazione. Altre volte può essere soggettiva. E' arte, e come tale va considerata.