Addio Abbas, patriarca con metodo

Lo ricordo grande, sorridente, patriarcale, a un pranzo di Magnum. I fotografi delle generazioni successive, Sessini, Majoli, lo circondavano con cameratesco affetto, ma anche un po’ di reverenza.

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Claudio Marcozzi, Abbas, Arles 2012. © Claudio Marcozzi / Photoland, g.c.

Come i profeti, Abbas aveva solo un nome. Il cognome, Attar, lo aveva lasciato cadere da qualche parte nel Mondo che ha visitato in tutte le direzioni, meridiane e parallele.

Abbas ci ha lasciato due giorni fa, a 74 anni. La foto che lo convinse di essere un fotografo è di cinquant’anni fa quasi esatti, estate del 1968. La scattò dall’altra parte del mondo (in molti sensi) rispetto all’Iran dove era nato.

Precisamente a New Orleans, mentre girava gli Usa in autostop. Una famigliola nera, mamma papà figlia, a riposo sotto il portico di una casa modesta. Non spiega perché, ma assicura che “in quello scatto era già presente la mia estetica futura, il momento sospeso”.

Dobbiamo cercarlo noi, quel momento sospeso. Io l’ho trovato nel profilo di una quarta figura, una donna, anche lei seduta, più lontano nel vicolo che si apre fra due case, le braccia sulle ginocchia, quasi assente e chiusa nei suoi pensieri.

Non sono tutte così rarefatte, le fotografie della sua carriera lunga mezzo secolo. Alcune sono molto agitate. Ma c’è quasi sempre un conto in sospeso, nelle migliori.

Il 4 novembre del ’79, per esempio. Abbas era tornato in Iran da due anni per fotografare la Rivoluzione. Sì, l’era di Khomeini. L’ayatollah che lui aveva fotografato mentre scendeva dalla scaletta dell’aereo che lo portava da Parigi a Teheran, da esiliato a trionfatore, e aveva quell’espressione che Abbas tradusse in parole: “lasciate che i miei piedi tocchino terra e poi vedrete”.

Il 4 novembre 1979, dicevo. Gli “studenti del Corano” hanno appena preso d’assalto l’ambasciata americana. Inizia la lunghissima crisi degli ostaggi.

Fuori dai cancelli, Abbas fotografa l’adrenalinica esultanza dei guardiani della rivoluzione. È un momento di caos, la realtà sfugge alla composizione del mirino.

Ma quando torna a casa e stampa i provini, la fotocamera gli presenta quel momento sospeso. Dietro le braccia levate degli armati, da una finestra dell’edificio, una silhouette della statua della Libertà sembra mimare il loro gesto con beffardo disprezzo.

Abbas si è definito una volta, in un’intervista a Mario Calabresi, un “osservatore riluttante”. Si riferiva appunto a quei tempi, quando cercava di non farsi coinvolgere.

Molto difficile, per un iraniano con coscienza. Abbas era, nel cuore, un nazionalista democratico. Sperò che la deposizione dello Scià, una volta accantonati gli estremismi religiosi, avrebbe aperto un’era di libertà.

AbbasrevolutionNon fu così. A Parigi, l’anno dopo, già pubblicava il suo reportage in un libro dal titolo eloquente, Iran: la rivoluzione confiscata.

In copertina, lo scatto ravvicinato a un mullah che, dal finestrino dell’auto, impugna una pistola come un gangster di Chicago. Gli consigliarono di non rientrare in Iran. Ne restò lontano per diciassette anni.

Lo si ritiene, un po' frettolosamente, il fotografo del mondo islamico. Anche questo, certo. Io credo sia stato un grande reporter del rapporto fra religione e storia.

L’esperienza amara di questo rapporto visto in azione nel suo paese non gli ha mai fatto perdere il rispetto per la spiritualità come una delle corde tese della civiltà.

“Possano gli dei e gli angeli delle religioni che ha raccontato con tanta passione essere con lui”, lo ha salutato il presidente in carica di Magnum, Thomas Dworzak.

Dopo Sipa e Gamma, Magnum è stata la sua casa. Ci entrò nel 1981, anni di trapasso dall’era dei padri fondatori a quella dei figli e nipoti. Ne diventò, per unanime riconoscimento, “un pilastro”.

Diceva: “Il fotogiornalismo è un metodo”. Credo che sia una delle definizioni più semplici e illuminanti che ne siano mai state date. Non un’ideologia, non una missione, neppure un genere. Un metodo.

Un metodo di lavoro. Cioè una scelta di linguaggio, strumenti, atteggiamenti che serve per uno scopo preciso. Se sei un fotogiornalista, quel metodo ha una regola suprema, che Abbas riassumeva così: “In quanto creatore sei importante, ma quello che vedi e fotografi è più importante delle tue personali sensazioni”.

Che grande semplice lezione per i fotografi dell’era degli ibridi comodi ed efficienti, i fotogiornartisti, i sedicenti storyteller, i produttori di immagini che possono essere riclassificate, senza il minimo turbamento, dalla pagina del giornale alla galleria d’arte.

I fotogiornalisti concettuali. Diceva Abbas di loro: “Esistono così tanti falsi fotografi concettuali con idee così povere intellettualmente”.

Ma mi fermo, perché un grazie-addio non è una polemica.

[Grazie a Claudio Marcozzi per la gentile concessione del suo ritratto di Abbas]

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Un commento

  • Consiglio, dopo aver letto questa piccola biografia, di sfogliare le 51 foto di Abbas sul sito Magnum per apprezzare a pieno questo straordinario fotogiornalista.
    Biafra, Bangladesh, Northern Ireland, Vietnam, the Middle East, Chile, Cuba e South Africa, sono alcuni dei luoghi da lui visitati per testimoniare attimi che sono passati alla storia.

    Grazie Michele per avergli dedicato un articolo ed avermelo fatto conoscere.

    Concludo aggiungendo quanto pensasse Abbas della sua fotografia (fonte Magnum):“Un conto è scrivere con la luce, un'altra cosa è dipingere con la luce. La scuola di Henri Cartier-Bresson insegna a dipingere con la luce. Ogni singola immagine è fondamentale in questo. Per me non è così. Le mie immagini sono parte di una serie. Ogni mia fotografia dovrebbe funzionare anche da sola, ma è visualizzandola insieme alle altre che acquista maggior valore .”