"Se non può cambiare il mondo, non è una buona foto". Addio Erich Lessing

Il primo incarico importante di Erich Lessing, austriaco, uno degli ultimi pionieri del grande fotogiornalismo europeo del Novecento, scomparso mercoledì a Vienna all’età di 95 anni, fu raccontare il ritorno in patria dei profughi turchi dalla Bulgaria, nel 1950.

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Erich Lessing, ink on paper, di Salvatore Piermarini

Volle che quel servizio avesse per titolo Gli ultimi rifugiati. “Nessuno di noi immaginava cosa avremmo dovuto ancora vedere…” scuoteva la testa alcuni anni fa davanti alla telecamera di un’intervistatrice, con un amaro sorriso sulla sua faccia mite.

Era, la sua, l’Europa che sperava davvero nella fine di tutte le guerre. Era, la sua, la fotografia che sperava di incoraggiare la fine di tutte le guerre. “Ma abbiamo mai davvero cambiato qualcosa, noi fotografi? O siamo stati solo degli archivisti della storia, a cui ogni tanto capita di fabbricare una bella icona?”.

Era tornato subito dopo la guerra, dalla Palestina, suo rifugio. Ebreo di buona famiglia viennese, nel ’39 i genitori avevano pensato bene di mettere al sicuro dal nazismo almeno quel vivace ragazzino di sedici anni. La sua famiglia morì ad Auschwitz.

Erich se la cavò studiando tecnologie radiofoniche ad Haifa e lavorando in un kibbutz. Teneva dietro al bestiame, ma nel tempo libero faceva fotografie ai bambini sulla spiaggia di Netanya.

La sua prima fotocamera l’aveva ricevuta in dono per il suo bar mitzvah, e l’aveva portata con sé, ma “non pensavo che diventasse un mestiere”, invece i militari britannici del Middlesex Battalion lo presero a servizio.

Così, quando tornò fra le macerie dell’Europa, non fece fatica a farsi assumere dall’Associated Press. “Volevo documentare il dolore e la speranza. Il clima era: adesso vediamo che mondo migliore riusciamo a tirare su”.

Fu un altro fotografo ebreo, David “Chim” Seymour, uno dei quattro padri fondatori di Magnum, l’agenzia immaginata da Capa e Cartier-Bresson, ad arruolarlo, nel ’51, come decimo cavaliere di quella leggendaria tavola rotonda di cacciatori di storie e di storia.

Di storia ce n’era in abbondanza, e i servizi di Lessing apparvero sui più grandi magazine del pianeta, Life, Paris Match, Picture Post; in Italia i lettori di Epoca conobbero il suo sguardo straordinariamente tenero verso le vittime, i bambini, la gente comune, in mezzo alle macerie di un continente.

Umano, forse troppo umano: qualcosa si ruppe presto nel rapporto fra Lessing e il suo mestiere. Nel ’55, mandato a coprire una conferenza internazionale a Ginevra (dove prese il suo scatto preferito, un Eisenhower illuminato da un raggio di sole quasi sovrumano), dovette urlare nella redazione di Quick per impedire che le sue foto fossero stravolte da didascalie anti-europeiste.

Furono però le giornate della rivolta d’Ungheria, nel ’56, che lui seguì fin dai primi giorni, a far crollare la sua speranza in un futuro di pace, e la sua fiducia nella fotografia come costruttrice di pace.

Si aggirava di giorno fra gli orrori della rivolta, guidando di persona la sua MG color crema che i rivoltosi ormai conoscevano e lasciavano passare, fotografava gli esiti sanguinari della giustizia di strada, e di ritorno in albergo si sentiva dire dal cameriere “stasera abbiamo dell’ottimo goulash”.

Seguì ancora il difficile viaggio di De Gaulle in Algeria, nel ’58: poi decise di averne abbastanza. “Ogni giornalista in cuor suo sa che le sue fotografie non cambieranno nulla. Sono semplici documenti ma, so di dire un’eresia, un documento che non cambia nulla forse non è un buon documento”.

Non smise di fotografare. Si dedicò ai secoli, non più ai giorni. Seguì le tracce di Ulisse e di san Paolo, documentò l’archeologia e l’arte, il cinema e la musica in sessanta splendidi volumi, tra cui Imago Austriae, il suo monumento.

Si fece conoscere e premiare come “il fotografo della cultura”, entrò nel consiglio dell’Unesco.

Fece però ancora ritratti ai politici, convinto a malincuore che “la storia passa dietro le porte chiuse di qualche summit più che nelle strade dove la gente lotta per la libertà”.

Il suo archivio di sessantamila immagini appartiene ora allo stato austriaco. Ci sono dentro una speranza e una missione, entrambe spezzate.

[Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 30 agosto 2018]

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5 commenti

  • Sono molto d'accordo sul concetto di fotografia come il comburente più che il combustibile dei cambiamenti socio politici. Lo hanno capito molte ONG che commissionano a grandi fotografi lavori su loro iniziative. Lo ha capito ad esempio Salgado che, quando ha voluto incidere direttamente su un'iniziativa a cui teneva molto ha fatto una fondazione ed ha fatto anche l'agricoltore.

  • Caro Smargiassi; infatti ho detto "anche".

  • Credo di essere più d'accordo con Lessing che con voi, cari amici. Le fotografie non fermarono la guerra in Cietnam. Furono le bare con le bandiere a stelle e astrisce che tornavano a casa al posto dei figli a fermarla. Le fotografie mostrarono solo agli occhi delle famiglie quello che il loro cuore sospettava già: che quella guerra fosse un inutile massacro.
    Né credo che sarebbe passata una (timidissima) legge contro suo lavoro minorile se oltre alle foto di Hine non fosse esistito un movimento per i diritti dei bambini e dei lavoratori.
    Le fotograife sono il comburente, non il combustibile del cambiamento sociale e politico. Se non esiste un bisogno di cambiamento, le fotografie non lo creano. Se esiste, sono uno strumento formidabile per confermarlo e dargli strumenti e occhi, così come le parolemdegli scrittori e dei giornalisti gli danno voce.
    Non deleghiamo alle immagini la costruzione della coscienza civile. E un compito inpossibile per loro.
    Il Fotocrate

  • Mettici anche il Vietnam, persa anche grazie ai fotografi.
    Certo gli eserciti se ne sono accorti e ora mandano i loro.

  • A dire il vero, ci fu un periodo in cui la fotografia riuscì a "cambiare il mondo": quello che va dagli anni Sessanta dell'Ottocento alle prime due decadi del Novecento. I grandi paesaggisti statunitensi quali Gardner, O'Sullivan, Watkins convinsero il parlamento ad approvare la legge sulla salvaguardia dei parchi natural, le inchieste di Riis e Hine indussero il Congresso a istituire la legge sul lavoro minorile, le documentazioni delle misere condizioni degli operai nelle catapecchie sovraffollate a Glasgow, Londra e Dublino indussero i governanti ad un piano di abbattimento e risanamento delle abitazioni (1868)...Eugene Smith ci sperò tanto nella capacità di convinzione della fotografia...poi il "diluvio"...!