Da Gerusalemme a Gaza

BEIRUT - “What a glorious day! Remember this moment. This is history”, dice Benyamin Netanyahu alla tribuna della nuova ambasciata americana di Gerusalemme. “Che terribile massacro!”, rispondono i dirigenti palestinesi per una volta senza distinzione di accenti fra Gaza e Ramallah, contando i 52 cadaveri, fra i quali un ragazzino di 12 anni e otto minori di 16, e gli oltre duemila feriti raccolti ieri sulla sabbia della frontiera fra la Striscia di Gaza e Israele, e che sommati alle altre 49 vittime e più di 700 feriti della marcia per il Diritto al ritorno cominciata il 30 marzo, fanno oltre cento morti e centinaia di feriti molti dei quali costretti a subire gravi mutilazioni. Un'ecatombe.
Il premier israeliano ha sempre avuto una certa inclinazione alla retorica, coltivata assieme all'ambizione di passare alla storia. Ma qui, alla tribuna della cerimonia per il trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, che in realtà è la consacrazione della proclamazione di Gerusalemme come “eterna capitale d'Israele” e, insieme, della sua annessione unilaterale da parte d'Israele in seguito alla guerra del 1967, be' qui la retorica scorre a fiumi e non solo dalla bocca di Netanyahu.
E dire che tutto questo ambaradan del riconoscimento di Gerusalemme capitale, organizzato da Trump per compiacere la parte più conservatrice della lobby ebraica americana, cui appartengono due degli ospiti di spicco della cerimonia, il genero e super consigliere presidenziale per il processo di pace, Jared Kushner, e l'ambasciatore David Friedman, assieme alle sette evangeliche e cristiano-sioniste che hanno eletto Trump loro paladino a suon di voti, era stato motivato in primis con un sano riconoscimento della “realtà”. La realtà madre della verità, ha ricordato Netanyahu, quella realtà ignorata per decenni secondo cui, bando alle cautele della diplomazia ,“Gerusalemme era la capitale d'Israele”(come ha ricordato il presidente americano in un suo messaggio televisivo).
Ma ecco che, preso atto di questa certezza lapalissiana, e agito di conseguenza, invertendo trent'anni di diplomazia americana e deludendo ancora una volta le attese dei partner europei, senza contare le aspettative dei palestinesi, il principio di realtà scompare dalla scena del conflitto e dai ragionamenti degli attori americani e israeliani.
Kushner, cui pure va il merito di aver pronunciato la parola ”palestinesi” (cosa che Netanyahu non ha fatto preferendo auspicare per il suo paese un futuro migliore “con tutti i vicini arabi”) ha voluto ribadire che il riconoscimento non avrebbe alterato lo status quo di Gerusalemme, santuario aperto alle tre grandi religioni monoteiste, chiamate a coesistere all' insegna della libertà di culto e del diritto di espressione. Così come il governo israeliano s'affrerttò a sottolineare all'indomani della conquista della Città Santa, nel 1967.
Anche Netanyahu ha voluto ricordare quel momento ma dando voce al suo spirito guerriero, riassunto nella frase attribuita a chissà quale comandante delle truppe israeliane che entrarono in Città vecchia proclamando: “Il Monte del Tempio è di nuovo nelle nostre mani”. Come dire ,ecco un primo risarcimento della storia. Il resto verrà da se.
Ma che c'entra lo status quo, il rispetto delle libertà religiosas, la garanzie? I palestinesi non rivendicano la libertà di culto. Come gliStati Uniti sono pronti a riconoscere il diritto d'Israele ad eleggersi la capitale che ritiene più opportuna, così i palestinesi chiedono che Gerusalemme Est (e qui s'intende anche una minima parte della città Orientale) sia la capitale dello loro stato. Ma su questa rivendicazione intorno alla quale s'è molto discusso negli anni del processo di pace soltanto per rimandarne la decisione definitiva alla fase finale del negoziato (così riconoscendo che qualsiasi eventuale variazione allo status di Gerusalemme dovesse avvenire mediante accordo tra le parti) né Trump, né il genero hanno mai detto niente. Mentre si sospetta che il piano di pace su cui sta lavorando Kushner di questa storia di Gerusalemme Est capitale della Palestina non parli proprio. Da qui il gran rifiuto di Abu Mazen ad accettare la mediazione americana
Anche il Vice-segretario di Stato, John Sullivan ha voluto dare il suo contributo al principio di realtà, affermando che la decisione di Trump su Gerusalemme era un “magnifico tributo alla pace”. Alla pace? Macome si fa a parlare di pace mentre le televisioni di mezzo mondo, accanto ai sorrisi, le mise eleganti, le pacche sulle spalle, le standing ovation ad ogni nome considerato amico da parte della piccola folla raccolta nel giardino dell'ex consolato americano ora eletto a mini-ambasciata, trasmetteva le immagini di quel deserto in fiamme, immerso nel fumo nero dei copertoni, squarciato dalla cascata dei lacrimogeni sparati dai droni sulla folla percorsa dai gruppi di soccorritori che trasportavano i morti e i feriti verso le ambulanze.
Basta liquidare questa tragedia – come fa il portavoce militare israeliano - come una macchinazione ordita da Hamas sul sangue e la carne dei palestinesi? Basta accusare, come fa Kushner dal palco di Gerusalemme, le decine di morti e le migliaia di feriti che porteranno per sempre sui loro corpi i segni di questa manifestazione disarmata, di aver provocato la violenza ed essere in definitiva “parte non della soluzione ma del problema”. E quindi, che si continui pure a spare sulla folla,
Evidentemente il principio di realtà si arena ai confini della Striscia di Gaza dove, se la gente ha perso ogni speranza, se la disoccupazione è al 60 per cento, se le fogne scoppiano, se la luce viene per 4 ore al giorno, se negli ospedali mancano le medicine e se in Israele va a fuoco una cultura a causa degli aquiloni palestinesi armati di bottiglie incendiarie si chiude l'unico varco commerciale a malapena funzionante, e dove i permessi per ricoverare i feriti gravi delle manifestazioni negli ospedali della Cisgiordania (non in quelli israeliani, per carità), viene accordato su “base individuale” e nientemeno che dall'Alta Corte, che si suppone debba occuparsi di ben altro e nel frattempo la gente muore, di tutto questo la colpa è soltanto di Hamas. L'assedio che va avanti da undici anni, non soltanto da parte d'Israele ma con la partecipazione dell'Egitto e nel silenzio-assenzo dell'Europa, non c'entra.

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2 commenti

  • beh ... lo possiamo dire una buona volta ...
    semplicemente siano in un periodo storico in cui il "Più forte" usa la sua forza spietatamente sul più debole ... e di questo se ne fa anche una "dottrina religiosa" ...
    ma la vera domanda ch emi pongo io è questa :
    pochi decenni orsono erano gli ebrei che stavano "assaggiando" la "politica" del "più forte" e ne hanno avuto qualche milione di morti assieme a polacchi ed altre etnie ... ma proprio non hanno imparato nulla???
    Non sanno che i corsi ed i ricorsi della Storia prima o dopo gliela rifaranno pagare???
    Sto parlando ovviamente degli ebrei VERI non di questi quattro guerrafondai che non hanno nulla da invidiare a quelli di 70 anni fa ...
    in realtà ho un'altra domanda : e se Salah Ah Din a suo tempo avesse usato a suo tempo i loro stessi attuali sistemi, quanti ebrei ci sarebbero oggi???
    La Storia torna sempre, è che a pagare non sono quelli che se la sarebbero meritata ma altri ... del resto la Bibbia dice chiaro e forte che le colpe dei padri ricadranno sui figli ...
    Ma evidentemente a questi "ebrei" non frega nulla dei propri figli ...
    GA

  • in Palestinesi NON vogliono semplicemente Gerusalemme est come capitale, se fosse così in Palestina ci sarebbe la pace da decine di anni
    vogliono buttare tutti gli ebrei a mare
    pensate cosa diremmo se i tedeschi continuassero a rivendicare i Sudeti, gli italiani Nizza Savoia e Corsica, i Russi l'Ucraina, i messicani tutto il Sud Ovest degli Stati Uniti, i Serbi la Croazia
    e magari i nativi americani volessero rimandare in Europa qualche centinaio di milioni di anglofoni e ispanici