Trump e i "Due Stati"

BEIRUT – Dopo aver inflitto una serie di colpi mortali alle speranze di ripresa di un equo e proficuo negoziato di pace tra israeliani e palestinesi, con il riconoscimento unilaterale di Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, l'accettazione automatica dell'espansione degli insediamenti nei territori occupati da parte dei coloni egregiamente rappresentati nel governo Netanyahu, l'offensiva contro gli enti internazionali creati a protezione dei profughi palestinesi, come la cancellazione dei contributi all' Unrwa, e l'adozione del pugno duro contro la stessa Autorità Palestinese, minacciata di venire spinta sul lastrico ed umiliata con la chiusura della rappresentanza diplomatica a Washington, tutte misure che hanno svilito quel ruolo di mediatore imparziale (honest broker) che l'Amministrazione americana s'era impegnata a ricoprire, così consegnandola all'abbraccio dell'estrema destra israeliana, nazionalista e messianica per la quale l'unico futuro accettabile per i Territori occupati è l'annessione, adesso Donald Trump, a sorpresa, sembra cambiare registro.
Incontrando il premier israeliano, mercoledì scorso a margine dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il presidente americano ha fatto una di quelle sue uscite nelle quali riesce a minimizzare e quasi ridicolizzare con poche battute, di solito sorprendenti per superficialità e/o semplicioneria, un problema politico assai complesso, evocando la formula dei “Due stati ” come auspicabile soluzione del settantennale conflitto tra israeliani e palestinesi. “The two states, oh yeah, my feeling is that this works best...I think the two state solution works best”. O yeah, la mia impressione è che questo funzionerà meglio...E poco dopo, ricordandosi forse che ha appena riconosciuto Gerusalemme in tutta la sua interezza, come “capitale unita e indivisibile d'Israele” , senza chiedere nulla in cambio allo Stato ebraico e senza concedere nulla alle istanze dei palestinesi, ha ammesso: “Israele dovrà fare qualcosa di buono per l'altra parte”.
Che queste parole siano una novità nel lessico dell'uomo, che si è guadagnato il titolo di n.1 tra i Presidenti americani amici d'Israele, non c'è dubbio. Che rappresentino una svolta capace di rianimare un processo di pace che da anni presenta un encefalogramma piatto, è assai discutibile.
Per intenderci, quando parliamo di “due stati” stiamo parlando di una idea partorita da George W. Bush (altro recordman dell'amicizia verso Israele e della diffidenza nei confronti dei palestinesi) nel 2005, quando la fresca elezione di Mahmud Abbas (Abu Mazen ) alla testa dell'autorità palestinese, dopo la subitanea e misteriosa morte di Yasser Arafat, elezione avvenuta con la benedizione di Bush e Sharon, sembrava aver aperto praterie al processo negoziale. Ma non se ne fece niente.
Fu con l'avvento di Obama alla Casa Bianca, nel 2008, che l'ipotesi dei due Stati riacquistò slancio e e una vasta accettazione nelle cancellerie occidentali. Ma non altrettanto si può dire in Israele, dove un'estrema destra sempre più in crescita, ha tradizionalmente visto nell'eventuale nascita dello Stato palestinese un disgrazia da evitare. Anche ieri, pur sapendo che tra le parole di Trump e la realtà comatosa del processo di pace c'è un abisso incolmabile, il leader dell'ultra reazionario Focolare Ebraico, nonché ministro della Pubblica Istruzione, Naftali Bennet, grande alleato di Netanyahu, è subito intervenuto per precisare che finché lui è il suo partito saranno al governo “non ci sarà nessuno stato palestinese che sarebbe un disastro per Israele”.
Combattuto tra la fedeltà al suo retroterra ideologico profondamente conservatore e la necessità di assecondare le improvvisazioni di Trump, il cui patrocinio avverte come assai più indispensabile su questioni più urgenti e spinose come lo scontro con l'Iran sulla Siria e sul programma nucleare, Benjamin Netanyahu è stato costretto a prendere atto della sparata di Trump e a stare al gioco presentando, o fingendo di presentare un attitudine non intransigente sulla questione dello Stato palestinese. Purché ci si intenda sulla parole Stato. “C'è il Guatemala (satellite americano) e c'è l'Iran”. Quale dei due modelli preferisce Bibi?
Quasi dieci anni fa, in un famoso discorso all'Università Bar Ilan, di Tel Aviv, il premier aveva mostrato una certa apertura verso la possibilità di uno Stato Palestinese: “Se otteniumo garanzie di demilitarizzazione e ferree disposizioni di sicurezza (da parte dei palestinesi,n.d.r.) - disse allora - saremo pronti (ad acetare, n.d.r.) una Palestina demilitarizzata accanto allo stato ebraico”. In seguito ha quasi abbandonato le suggestioni di Bar Ilan, alludendo ad uno “state minus” che con parole diverse rappresenta la vecchia idea del likud di concedere ai palestinesi poca o nessuna sovranità. Anche mercoledì, a New York, venuto il suo turno ha fatto i salti mortali per evitare di usare le due paroline magiche, “stato “ e “palestinese” ,ma su una cosa è stato chiarissimo. E cioè che “Israele non rinuncerà mai al completo controllo della sicurezza ad Ovest del Giordano”. Il che significa, esercizio della giurisdizione in tutti o quasi i territori palestinesi e, in sostanza, il proseguimento dell'occupazione. Di fatto, ha scritto il giornale liberal Haartez, il commento di Netanyahu ha rappresentato un “non inizio”.
Ma non bisogna disperare. Assieme a battute il cui senso è noto soltanto a lui, come quando ha detto che la trattative sui “due stati “è come un affare immobiliare”, e espressioni improntate alla solita ineguagliabile sicumera (“i palestinesi torneranno al tavolo, al 100%”, dopo essere stati colpiti nella tasca), il presidente americano ha annunciato che il piano di pace cui stanno lavorando da 20 mesi il genero, Jared Kushner e il capo del suo apparato legale, Jason Greenblatt, riciclato come inviato in Medio Oriente, e propagandato come “l'accordo del secolo“, sarà pronto “da due a tre o da tre a quattro mesi”. Vale a dire a breve. Si può immaginare l'ansia che percorre i palazzi di Ryad e Dubai, che già confabulano e fanno affari più o meno segreti con Israele, e la preoccupazione che scuote gli uffici palestinesi di Ramallah e la Corte hashemita ad Amman.
In questo lasso di tempo in cui ha vagheggiato di passare alla storia come il risolutore del più antico conflitto che affligge il Medio Oriente, Trump ha avuto modo di capire che “tutti i leader arabi che ho incontrato sono d'accordo che la pace in quella zona è importante”. Ma nessuno gli ha ancora detto che la pace si fa in due?

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