Il buco nero che ha ingoiato Jamal Khashoggi

BEIRUT – Soltanto una mentalità pigra e conformista può definire un “giallo”, la sparizione del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Dal momento che non c'è una chiara rivendicazione, né una prova a carico paragonabile a quella che gli americani chiamano una “smoking gun”, una pistola fumante, viene più comodo trincerarsi dietro il paravento del mistero insolubile che in fondo non nuoce a nessuno e lascia le porte aperte ad ogni ”verità” dovesse affacciarsi sulla scena. In realtà, tutti gli elementi affiorati attorno alla scomparsa di Khashoggi portano al Consolato saudita di Istambul, i cui cancelli Jamal Khashoggi varcò alle 13,30 di martedì 2 Ottobre, precipitando in un buco nero.
Riassumendo brevemente. Jamal Khashoggi, 59 anni, è un intellettuale saudita appartenente alla nomenklatura del suo paese. Direttore di giornali, consigliere ed amico del potente principe Turki al Faisal, ex capo dei servizi di sicurezza e corteggiatissimo ambasciatore negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, Jamal è il classico anello di congiunzione tra la stampa internazionale e il Palazzo Saudita, la persona giusta cui rivolgersi per un commento, o un opinione dall'interno della inaccessibile monarchia petrolifera.
Questo, fino a tre anni fa. Tre anni fa, con l'ascesa di re Salman, l'ultimo dei sei figli di Abdelaziz al Saud, considerato il fondatore della moderna Arabia Saudita, i cosiddetti Sette Sudairi, dal nome della madre, un potente clan che darà tre re al paese, Jamal capisce che la monarchia, di cui si proclamerà sempre un leale sostenitore, sta per entrare in una fase d'imprevedibili cambiamenti, tali da provocarne uno snaturamento. E prende le distanze, anche fisicamente, trasferendosi negli Stati Uniti, dove non gli è difficile, da informatissimo insider degli affari del Golfo, guadagnarsi il ruolo di commentatore in una delle più prestigiose testate americane, il Washington Post.
Da quella sua postazione privilegiata Jamal osserva con allarme la vertiginosa ascesa al trono del principe Mohamed bin Salman, il figlio prediletto di re Salman che in pochi mesi riesce a concentrare nelle sue mani un potere immenso: Ministro della Difesa, capo del Comitato per l'Economia e lo Sviluppo, che oltre ai ministeri economici compresa anche l'azienda petrolifera di Stato, Aramco, erede al trono, dopo aver estromesso da quel ruolo, lo stimato principe e ministro dell'Interno, Mohammed bin Najef.
MBS, come viene soprannominato il giovane e spregiudicato principe ereditario, si propone come il grande riformatore, capace di spezzare per sempre la dipendenza economica e, direi anche, morale, dal petrolio, diversificare le fonti di produzione, valorizzare le risorse interne facendo crescere una leadership alternativa ad una classe dirigente che non sa cosa siano competenza ed efficienza, abituata com'è a importare tutto dall'estero a costi che cominciano a diventare insostenibili persino per gli immensi forzieri della ricchezza saudita.
Il progetto del principe è ambizioso, ammicca alla modernità, esalta valori cari all'Occidente, la moderazione religiosa, i diritti delle donne a cui viene finalmente concessa la patente, ma i metodi di cui serve MBS sono quelli di un autocrate senza scrupoli. Non si accontenta del potere, l'obbedienza assoluta e il consenso totale. Anche quando certe sue decisioni, come la guerra contro la tribù degli Houthi nello Yemen, diventata una guerra spietatra contro la popolazione civile yemenita, oppure l'assedio economico e politico del Qatar, accusato di fomentare il terrorismo per i suoi legami economici con l'Iran, il grande nemico, si presta a critiche e obiezioni.
A settembre del 2017 un'improvvisa retata riduce in catene decine di intellettuali, personalità religiose, burocrati per presunti legami con le autorità di Doha, oppure semplicemente per aver mantenuto un giudizio di perplessità verso l'embargo decretato contro il Qatar. Due principi vengono arrestati all'estero e rimpatriati forzatamente. A Novembre il pugno duro di MBS si abbatte sull'intero vertice economico saudita, rinchiuso nella prigione dorata del Ritz Carlton Hotel di Ryad, dopo aver partecipato alla kermesse mondiale organizzata per il lancio del progetto riformista “Vision 2030”. L'accusa generalizzata è di corruzione. Ma gli imputati possono cavarsela pagando miliardi di dollari o cedendo all'apposito fondo anti-corruzione istituito dal principe, le loro aziende. Una farsa, dal punto di vista giudiziario. Una tragedia, invece, dal punto di vista dei diritti umani.
Jamal Khashoggi, rifiuta il cliché di “dissidente saudita”, ma accusa MBS di esercitare una “giustizia selettiva” e di manifestare “una completa intolleranza persino verso la più blanda delle critiche”. A quel punto capisce che non può essere contemporaneamente “pro” e “contro”, specialmente davanti alla terribile sorte subita da alcuni suoi amici. E allora decide di consegnarsi ad una sorta di auto esilio, sperando in tempi migliori e con l'esilio arriva il boicottaggio da parte del sistema saudita e il divorzio. Ma Jamal non cede: “Ho lasciato la mia patria, la mia famiglia e il mio lavoro. E faccio sentire la mia voce. Fare diversamente significherebbe tradire quelli che languiscono in prigione. Noi sauditi meritiamo di meglio”.
Da Washington, Jamal passa a Istambul, che è come stare sulla porta di casa, oltre che in un porto sicuro per molti oppositori in esilio provenienti da diversi paesi arabi. E qui conosce una ricercatrice laureata che si occupa di Medio Oriente, Hatice Cengiz, la donna turca che intende sposare al più presto. Jamal ha comprato anche una casa e il mobilio necessario ma, secondo le leggi turche, per potersi sposare deve produrre un certificato che attesti l'avvenuto divorzio.
E' per questo che, secondo la ricostruzione del New York Times, una settimana prima di scomparire, Jamal si presenta al consolato saudita di Istambul, chiedendo il rilascio di quel documento. L'incontro con le autorità consolari è positivo. Ma ci vuole qualche giorno prima che il documento sia pronto. L'appuntamento è per martedì 2 Ottobre, alle 13,30. Jamal ha fiducia nei suoi interlocutori. Ad Hatice, preoccupata che quel nuovo appuntamento posa nascondere una trappola, dice che “quelli non oseranno fare qualcosa in territorio turco”.
Martedì il giornalista e la sua fidanzata vanno all'appuntamento al consolato saudita. Lei resta fuori. Lui le lascia i suoi telefonini con la raccomandazione che se non torna entro breve tempo avverta i suoi amici. Poi entra in quell'edificio di sei piani dall'intonaco rosa al centro di Istambul e finisce in un buco nero. Hatice aspetta fino a mezzanotte e torna anche l'indomani mattina. Niente. La storia è tanto grave da apparire incredibile. Un cittadino entra nel consolato del suo paese per chiedere un documento e scompare. Ma in che mondo siamo? Sembra un film.
Le autorità consolari dicono che sì, Khashoggi è arrivato quel giorno, ma è andato via poco dopo. Se è così non dovrebbe essere difficile dimostrarlo, ma purtroppo, aggiungono, le telecamere di servizio non registrano i filmati. Ma non dovrebbe esserci una firma di Khashoggi all'entrata e una al momento di uscire? Non si sa. I turchi fanno sapere che le risposte saudite “non sono convincenti”. E insistono sul fato che si tratterebbe di una grave lesioni della sovranità turca se Jamal non riapparisse.
Si scomoda anche il potentissimo principe. “So che è entrato in consolato ed è uscito dopo pochi minuti o un'ora”. Assicura che le autorità saudite non hanno nulla da nascondere. Elogia la Turchia per aver accettato che una squadra di inquirenti mandati da Ryad conduca un'inchiesta speciale sul caso. Afferma di aver a cuore le sorti di ogni cittadino saudita.
Detto fatto, il consolato saudita ad Istambul apre le sue porte all'agenzia Reuter, mostrando ai cronisti ogni angolo del palazzo, incluse le toilette e i sotterranei. Di Khashoggi ovviamente non c'è traccia. Da qui un altro raccapricciante sospetto fatto trapelare sulla stampa turca, evidentemente imbeccata dalle autorità. Jamal sarebbe stato ucciso nei locali del Consolato e il suo corpo smembrato. Il sabato precedente la sua scomparsa, sono arrivati a Istambul 15 rappresentanti sauditi muniti di passaporto diplomatico che si sarebbero trovati al consolato all'arrivo di Khashoggi, per ripartire subito dopo. Sarebbe questa la squadra della morte?
I sauditi, ovviamente negano, ma il caso è di dimensioni tali da innescare una forte tensione tra Ankara e Ryad, le due capitali che si contendono la guida del mondo arabo sunnita e i cui rapporti sono stati messi abbondantemente alla prova dalle più recenti vicende politiche mediorientali. L'Arabia Saudita contesta a Erdogan la scelta di collaborare con l'Iran, considerato dalla monarchia petrolifera il Nemico globale N.1, oltre che il grande destabilizzatore del Medio Oriente, nel tentativo di trovare una soluzione alla crisi siriana. Ma soprattutto, Ryad imputa ad Ankara l'atteggiamento assunto nei confronti dell'isolamento decretato il 5 giugno del 2017, con la complicità dell'Egitto, degli emirati Arabi Uniti e del Bahrein, contro il Qatar accusato di sostegno al terrorismo, ancora e sempre per i suoi legami economici con il grande nemico iraniano, Allora si parlò anche di un mminente intervento militari degli assedianti contro il piccolo, ma ricchissimo emirato posto sotto assedio. Intervento che venne accantonato soltanto per la presenza dei soldati di Ankara nella base turca di “Tariq bin Zayed”, a sud di Doha, e la minaccia di Erdogan d'intervenire militarmente.

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