Quando MbS voleva mettere a tacere Khashoggi

BEIRUT – Mohammed bin Salman, l'ineffabile erede al trono saudita, la cui immagine di giovane e incontrollabile despota va sempre più sovrapponendosi a quella di riformatore illuminato frettolosamente accreditata dai media e dai governi occidentali, aveva dato ordine ai servizi segreti sauditi di sequestrare Jamal Khashoggi mentre si trovava in suo esilio volontario negli Stati Uniti e portarlo in Arabia Saudita, non si sa se per arrestarlo o per ucciderlo, ma certamente per far tacere la sua voce dissonante, dopo che diversi tentativi di ingraziarsi il giornalista diventato un critico del regime erano falliti.
E' quanto affermano i due più importanti giornali americani, il New York Times ed il Washington Post (per quest'ultima testata Khashoggi lavorava da un anno come commentatore) citando fonti dell'Intelligence statunitense. E quest'ennesima rivelazione, capace di per sé di sollevare non pochi interrogativi sulla straordinaria audience accordata da Donald Trump al giovane principe ereditario di Ryad, finisce con il risultare perfettamente coerente con il non meno grave sospetto secondo cui il tremendo supplizio inflitto, martedì 2 Ottobre, a Khashoggi, all'interno del consolato saudita di Istanbul, sia stato deciso al più alto livello del potere saudita.
A convincere agli analisti americani che MBS soffriva le critiche di Jamal Khassoggi al punto da meditare di togliergli innanzitutto lo spazio di libertà di cui godeva negli Stati Uniti, dove si era trasferito due anni fa, e contemporaneamente la libertà della parola, sono alcune intercettazioni telefoniche eseguite dagli stessi servi di sicurezza. Intercettazioni, o registrazioni, da cui si evince che il potentissimo principe saudita aveva inizialmente cercato di irretire il giornalista per convincerlo a tornare a Ryad.
Tra le prove citate dal Washington Post vi sarebbero le telefonate di un importante consigliere della Real Casa, Saud al Qahtami, che chiama diverse volte Khashoggi prospettandogli alti incarichi e laute ricompense se deciderà di tornare a casa. Ma il giornalista non ci casca. “Stai scherzando – confida ad un amico –? Non credo neanche un attimo a quello che dicono”.
Così, dopo le sirene, arrivano le minacce e, a quanto pare, l'ordine di riportarlo in patria, mentre Khashoggi si trova in Virginia. Perché i capi sauditi si sentono traditi dal giornalista che è stato un loro assiduo frequentatore ed un leale collaboratore della famiglia reale. Ma adesso lo sospettano di essere un esponente della Fratellanza Musulmana (bandita nel regno) e|o al servizio del Qatar, il piccolo emirato principale produttore di gas al mondo contro cui MbS ha montato un assedio politico, economico e militare con l'accusa di “sostenere il terrorismo”, vale a dire: mantenere rapporti economici e politici con l'Iran, il grande nemico.
Il resto richiama alla mente il tipico comportamento di certe potenti organizzazioni criminali, come la mafia: se i tentativi di corrompere la vittima designata vanno a vuoto, se le minacce non vengono ascoltate, e la persona presa di mira persiste nel suo comportamento, non resta che la punizione massima, la morte. Che serva anche da avvertimento per tutti, amici e nemici.
Qui, accanto alla malvagità di chi ha messo in atto il supplizio di Jamal Khashoggi, c'è una componente di arroganza, di temerarietà mai viste, e che, secondo le indagini condotte dalla Turchia, è consistita nel trasformare in un'orrenda “camera della morte” una sede diplomatica, per definizione intangibile, all'interno della quale nessun cittadino potrà d'ora in avanti sentirsi al sicuro.
Ora, tutto questo, oltre agli sconcertanti dettagli affiorati intorno all'uccisione di Khashoggi, di cui si dice che le autorità turche posseggano una registrazione audio, vale a dire i 15 uomini appartenenti agli apparati di sicurezza giunti su due aerei da Ryad per uccidere e fare a pezzi il cadavere del giornalista armati di una sega speciale in loro possesso, sembra mettere in discussione la solida fama costruita intorno alla figura di Mohammed Bin Salman.
Appena un anno fa, mentre presentava il suo stellare progetto di rilancio dell'economia saudita, denominato Vision 2030, MbS era il giovane intraprendente principe per il quale le firme più prestigiose del giornalismo americano, non esitavano a spendere lodi sperticate. Evviva il principe visionario, l'inventore della “rivoluzione dall'alto verso il basso” che, non soltanto avrebbe liberato quel paese così importante per i destini del mondo, dalla dipendenza dal petrolio come unica fonte di ricchezza, ma avrebbe finalmente rotto le catene del conservatorismo religioso a favore di una visione moderata dell'Islam, concesso pari diritti e pari opportunità alle donne, promosso i valori della tolleranza.
“La presunta uccisione di Khashoggi rappresenta un colpo mortale a tutto queste speranze e aspettative. A meno che i sauditi non possano in qualche modo spiegare quel che è successo e accettare la piena responsabilità”, ha scritto sul Washington Post il consigliere di George W.Bush per il Medio Oriente, Elliott Abrams.
Finora Mohammed bin Salman s'è limitato a rintuzzare le accuse senza fornire nessun particolare tranne il fatto per nulla credibile che Khashoggi è entrato nel Consolato e ne sarebbe uscito “pochi minuti, o un'ora dopo”. Non sono state date spiegazioni né è stata fornita una ricostruzione alternativa a quelle offerta dai media turchi con l'avallo degli apparati di sicurezza turchi.
Ma già quello che è merso, comprese le ultime rivelazioni sui piani coltivati dal principe ereditario di far rientrare forzatamente Khashoggi e arrestarlo, basta e avanza ad insinuare più di un dubbio sulla scelta di Trump di fare della sicurezza militare dell'Arabia Saudita il nocciolo della strategia americana in Medio Oriente. Questa, forse, è stata la prima “svolta” di Trump rispetto alle distanze prese da Obama verso un alleato saudita che si era opposto con tutte le sue forze al negoziato sul nucleare iraniano su cui, invece, Obama, puntava molto.
Trump invece ha voluto sin dall'inizio marcare la differenza con il suo predecessore, compiendo il primo viaggio all'estero del suo mandato proprio a Ryad (dove s'è vantato di aver strappato commesse militari per 110 miliardi di dollari). Poi, fra il giovane principe ereditario e l'altrettanto giovane genero del presidente, Jared Kushner, delegato a realizzare un piano di pace tra israeliani e palestinesi evidentemente con l'avallo di Ryad, definito sin dall'inizio come “l'accordo del secolo”, ma tutt'ora di la da venire, è stata un' ininterrotta luna di miele.
L'impressione è che di questa intesa perfetta, a parte l'industria bellica americana, si sia giovata più la corona saudita che la Casa bianca. Così, quando MbS ha fatto arrestare e richiudere al Ritz Carlton Hotel centinaia di ricchi sauditi, tra cui molti principi e manager, facendo loro pagare con parte dei loro patrimoni una sorta di penale per essersi giovati della corruzione diffusa nel regno, Trump , anziché indignarsi per il metodo seguito, non ha battuto ciglio ed anzi ha difeso il principe (e il re Salman) dicendo che “sanno quello che fanno”.
Idem per la guerra nello Yemen, dove l'aviazione saudita, bombardando le postazioni dei miliziani Houthy, minoranza vicina all'Iran, ha provocato migliaia di morti tra i civili. Eppure, nonostante gli allarmi delle organizzazioni umanitarie e le proteste di settori dell'opinione pubblica americana e di alcuni deputati, il Segretario di Stato, Pompeo, ha detto al Congresso che i sauditi facevano di tutto per minimizzare le perdite fra la popolazione yemenita.
Per non dire infine delle palesi violazioni dei diritti umani, gli arresti di intellettuali, religiosi, professionisti accusati di intelligenza con il Qatar. Accusa che non è stata risparmiata persino ad alcune delle militanti che avevano reclamato il diritto ad ottenere la patente di guida.
Insomma con il suo atteggiamento acritico e, a volte, con la sua ostentata simpatia, Trump ha permesso a Mbs di credere che poteva fare quello che voleva. Neanche adesso, difronte ad un delitto senza precedenti come quello di Khashoggi, il comportamento di Trump verso l'Arabia Saudita è stato lineare. Per una settimana il presidente americano ha preferito tacere, bisbigliando soltanto di essere preoccupato, il che francamente è molto poco. Mercoledì ha invitato la fidanzata del giornalista scomparso alla Casa Bianca e ha ordinato agli uomini più vicini al dossier saudita, Kushner e Pompeo, di chiamare il principe al telefono. Notizie da quel versante, zero. In questa situazione è molto difficile che la Casa Bianca si muova perché la morte di Khashoggi non resti impunita.

Condividi:
  • Facebook
  • Twitter
  • Google Bookmarks
  • FriendFeed
  • LinkedIn
 

Un commento

  • e di cosa ci meravigliamo???
    Sono almeno quindici anni che ne succedono di tutti i colori in quelle zone ma non mi pare che ci siano state tante prese di posizione ...
    non ci si può lamentare se i buoi scappano perchè vengono lasciate aperte le porte, dicendo che sono chiuse ...
    GA