Effetto Khashoggi: basta guerra nello Yemen?

BEIRUT – Stati Uniti e Inghilterra, due dei massimi fruitori dell'esagerato consumismo bellico di Mohammed bin Salman, l'erede al trono saudita sempre più invischiato nelle indagini sull'uccisione del giornalista Jamal Khashoggi, si sarebbero finalmente decisi a strappare dalle mani del temerario principe ereditario il suo giocattolo preferito, la guerra nello Yemen, costata finora oltre 200 miliardi di dollari.
Dopo tre anni e mezzo di bombardamenti e di assedio militare del paese più povero del Medio Oriente, che hanno provocato almeno diecimila morti tra i civili e quella che le Nazioni Unite hanno definito la peggiore crisi umanitaria da un secolo a questa parte, Londra e Whashington hanno realizzato che l'offensiva lanciata dall'Arabia Saudita contro la tribù yemenita degli Houthi, sostenuti dall'Iran, avrebbe soltanto accresciuto il disastro senza raggiungere gli obbiettivi proclamati, vale a dire la cacciata degli Houthi dal governo e il ritorno al potere dell'ultimo presidente eletto, Abedrabbo Mansour Hadi che gode della protezione di Ryad.
In realtà, sia a Washington che a Londra, che nelle altre capitali occidentali sanno bene che quella lanciata dai sauditi nello Yemen è una cosiddetta “proxi war”, vale a dire una guerra per procura, o per interposta milizia armata, in cui gli Houthi sono soltanto gli obbiettivi immediati, mentre il vero nemico che si vuole colpire è il regime di Teheran, accusato di armare e appoggiare i ribelli al fine di minacciare la sicurezza del reame petrolifero. Il quale ha sempre trattato lo Yemen come una specie di cortile di casa, imponendovi, anche a costo di guerre sanguinose, il suo ordine e i suoi uomini fidati.
Ma con gli Houthi al potere a Sana, dopo un golpe militare in cui si sono impossessati dei palazzi ministeriali senza neanche combattere, grazie anche, dettaglio che si tende ad omettere, all'appoggio militare delle unità fedeli all'ex presidente Alì Abdallah Saleh, ucciso l'anno scorso dopo aver cercato di cambiare cavallo in corsa, per i governanti sauditi s'è materializzato l'incubo di quello che con parole suadenti viene correntemente definito l'espansionismo iraniano e che, a Ryad, ma anche a Washington e in Israele viene valutato alla stregua di una minaccia globale da contrastare risolutamente.
Per la verità, nel marzo del 2015, quando Mohammed bin Salman, fresco di nomina a Ministro della Difesa e in procinto di dare la scalata al trono, presentò agli alleati americani i piani di una coalizione, ovviamente a guida saudita, di nove paesi arabi, tra cui l'Egitto, pronta a scatenare la guerra nello Yemen, Barak Obama non era per nulla convinto di acconsentire. Ma poi, forse credendo di poter ottenere in cambio dall'alleato saudita una certa acquiescenza su ciò che più gli premeva, cioè di poter condurre in porto le trattative con l'Iran sul nucleare, Obama accettò che gli Stati Uniti avessero un ruolo limitato al rifornimento in volo degli aerei della coalizione e nel sistema delle telecomunicazioni.
Da allora però, le cose sono cambiate. Soprattutto è cambiata la percezione dell'opinione pubblica americana ed europea sia sulle ragioni della guerra che sui suoi effetti. Mentre quel conflitto dimenticato, diventato terreno di conquista per bande di mercenari nel libro paga di Mohammed bin Salman e del suo incrollabile alleato, il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed, nonché un'opportunità insperata per Al Qaeda, riappropriatesi di intere province, rafforzava la sua ragion d'essere nella utilitaristica adesione di Trump alle spericolate manovre proposte dal giovane principe.
Al punto che, davanti alle immagini sconvolgenti delle sofferenze inflitte ai civili dai bombardamenti sauditi a base di munizioni americane, e italiane, o dal blocco navale che ha lasciato senza cibo e senza acqua 14 milioni di persone, il segretario di Stato, Mike Pompeo, non più tardi del mese scorso dichiarava alla Commissione Esteri del Senato che, per quanto risultava all'Amministrazione, i militari sauditi adottavano tutti gli accorgimenti necessari ad evitare i cosiddetti danni collaterali, ovvero, “minimizzare vittime civili”.
Di contro, lo stesso Pompeo, in una dichiarazione pubblicato sul sito del Dipartimento di Stato ha affermato ieri che “è tempo di terminare questo conflitto, sostituirlo con il compromesso e permettere alla popolazione yemenita di sanare le ferite attraverso la pace e la ricostruzione”. E per rendere ancora più credibile il suo auspicio ha abbozzato le condizioni di una tregua. “Naturalmente, prima, i ribelli Houthi devono cessare di lanciare missili contro l'Arabia Saudita e il suo principale alleato, gli Emirati Arabi Uniti. Di conseguenza i bombardamenti della coalizione dovranno cessare su tutte le aeree popolate dello Yemen”.
E' difficile ipotizzare che alla base di questa svolta vi siano i reportage che coraggiosi giornalisti e fotografi americani hanno realizzato nello Yemen. Immagini sconvolgenti, non soltanto di combattenti feriti a morte in prima linea, ma soprattutto di bambini denutriti, o avvizziti dal colera, agonizzanti fra le braccia di giovani madri velate di nero in squallide stamberghe chiamate ospedali. Immagini che, guarda caso, Facebook ha cercato di bloccare per alcune ore con il pretesto che, essendo alcuni dei piccoli malati nudi, si veniva a violare il regolamento del popolare social network sulla sessualità. Capite? La sessualità.
E allora come mai l'Amministrazione Trump, cui s'è subito accodato il governo May, secondo grande procacciatore di armamenti per il reame petrolifero, nonché antesignano estimatore di Mohammed bin Salman, hanno deciso di dire basta a questa guerra inutile e dimenticata? Il dipartimento di Stato ha negato qualsiasi rapporto di causa ed effetto con l'affaire Khashoggi. Ma sta di fatto che le proteste sollevatesi nei due rami del parlamento americano sui legami stretti dall'Amministrazione, e segnatamente dal genero di Trump, Jarred Kushner e dallo stesso presidente con il principe reggente saudita, gli inviti a rivedere il contratto del secolo che prevedere forniture militari per 110 miliardi di dollari all'esercito di Ryad, un affare che sembra pesare come un macigno persino sull'esigenza morale avvertita dall'opinione pubblica americana di approfondire le responsabilità del delitto e trarne le dovute conseguenze, senza guardare in faccia a nessuno, tutto questo si accompagna al crescente disagio di aver appoggiato una guerra che si è risolta in un'avventura fallimentare senza una strategia precisa e senza un termine prevedibile.
Politicamente, Stati Uniti e Inghilterra, affermando l'urgenza di giungere ad una tregua (il segretario alla Difesa, Mattis, ha addirittura ipotizzato la fine dei combattimenti entro un mese) segnalerebbero che, nonostante i rapporti speciali intessuti con Mohammed bin Salman, non sono certo disposti ad assecondarne i disegni più temerari e le decisioni spesso affettate del reggente di Ryad.
Personalmente, penso che la crisi di credibilità che ha investito la figura del giovane erede al trono, in seguiti alla morte di Khashoggi e alla scoperta che nello squadrone inviato per ucciderlo c'erano almeno 5 addetti alla protezione del principe e una dozzina di membri degli apparati di sicurezza agli ordini dello stesso, non è stata considerata tale, dai governi occidentali, da mettere in discussione il progetto di Grande Alleanza tra Stati Uniti, Arabia Saudita, Israele e stati vassalli messa in campo per contrastare l'avanzate dell' Asse della Resistenza creato dall'Iran con le milizie sciite irachene e libanesi, quel che resta del regime siriano e la condiscendenza sommessa del governo iracheno. L'Arabia Saudita di Mohammed bin Salman e del di lui padre, resta il perno dello schieramento anti-Teheran che nei prossimi giorni, in coincidenza con il lancio delle nuove sanzioni americane contro l'Iran, darà vita alla cosiddetta “Nato araba”. Ma l'improvviso soprassalto di prudenza, da parte di Londra e Washington, seguito a mesi e mesi di consapevole lasciar fare, da parte dei potenti alleati occidentali del principe, non deve intralciare il corso delle indagini sulla morte di Jamal Khashoggi, su cui molto resta ancora da scoprire.

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