Schiaffo a MBS, inchiesta Onu su Khashoggi

BEIRUT – La decisione delle Nazioni Unite di aprire un'inchiesta internazionale indipendente sul barbaro assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, strangolato e fatto a pezzi all'interno del consolato saudita di Istanbul da una squadra di agenti mandati appositamente da Ryad, è una vittoria della Turchia, che sin dall'indomani del delitto non ha cessato di chiedere un'indagine sotto l'egida dell'Onu, e una sconfitta per Donal Trump. Il presidente americano, ignorando le conclusioni della CIA, secondo cui ad ordinare l'uccisione di Khashoggi è stato l'onnipotente erede al trono saudita, Mohmmed Bin Salman, o MBS come viene chiamato sui giornali, ha scelto di garantire al discusso alleato di Ryad una sorta di impunità in nome dei “superiori interessi nazionali” e in dispregio della morale.
In realtà, nel difendere dopo qualche iniziale esitazione l'erede al trono saudita ,Trump ha cercato di schermare il ruolo avuto dal genero, Jared Kushner, marito della figlia, Ivanka, nella promozione del principe ad interlocutore privilegiato della Casa Bianca, nonché pilastro della complessa strategia ideata dall'Amministrazione Trump per il Medio Oriente. Strategia finalizzata a contrastare quello che viene definito l' “espansionismo iraniano” nella regione e, possibilmente, ad indurre un capovolgimento radicale del regime degli Aytollah.
Non è un caso che, quando cominciarono a circolare i primi sospetti sul coinvolgimento di MBS nell' omicidio di Jamal Khashoggi, il principe abbia telefonato a Kushner per influenzare il giudizio del genero di Trump sulla vittima descritta dall'erede al trono come un “estremista”, appartenente ai “fratelli musulmani” e via screditando.
Sicuramente, nella decisione del cosiddetto governo mondiale di condurre un' inchiesta internazionale ha giocato anche l'abile e lento stillicidio di notizie e indiscrezioni lasciate filtrare dall'apparato di sicurezza turco, su decisione dello stesso presidente Erdogan, per mantenere viva l'attenzione su un caso di cui non si conoscono precedenti e nella convinzione che la Turchia, impegnata in uno scontro con l'Arabia Saudita per il predominio nel Medio Oriente sunnita, potesse trarne politicamente vantaggio.
Ma al di la delle aspettative dei vari attori sulla scena, resta la gravità, pienamente percepita dall'opinione pubblica mondiale, di un delitto agghiacciante che ha fatto strame, oltre che di ogni barlume di umanità, basti pensare al modo in cui gli assassini decidono di accanirsi sul cadavere per farlo sparire, anche di alcune fondamentali norme di civiltà, come ad esempio il principio di intangibilità di una sede diplomatica trasformata in una sorta di camera della morte sperimentata da certe famiglie mafiose.
Davanti al profilarsi di una verità shoccante e imbarazzante al tempo stesso su un omicidio compiuto da uomini dello Stato saudita, in stretto contatto con il principe ereditario, e sulla base degli ordini ricevuti da due alti ufficiali altrettanto intimi di MBS, la Corona petrolifera ha reagito, dapprima, con vergognosa reticenza, affermando che Khashoggi, che era andato al Consolato di Istanbul su appuntamento per ritirare dei documenti utili al suo futuro matrimonio, era uscito dalla sede diplomatica con i suoi piedi, e poi, con spudorata arroganza volta a minimizzare l'accaduto. Ora dicendo che sì, il giornalista era stato ucciso per errore durante una colluttazione con agenti senza un mandato, infine ammettendo l'uccisione ma sempre causata dalla resistenza opposta dallo stesso Khashoggi.
Dire la verità, ammettere un fisco di queste proporzioni, sarebbe stato troppo. Mohammed Bin Salman ha allora cercato di rimediare comparendo davanti al pubblico che preferisce, quello dei manager e dei finanzieri dell'economia globale pronti a celebrare i fasti dei petrodollari e a regalargli l'aura arbitraria di riformista illuminato, per ammettere il proprio turbamento davanti a un delitto così grave e la ferma volontà di fare giustizia. Ma nel frattempo, non soltanto Erdogan, ma la stessa CIA maturava la certezza che un'operazione come quella decisa per eliminare Khashoggi, giornalista dissidente rispetto all'esercizio del potere da parte di MBS e fautore di un pluralismo che nel reame petrolifero equivale a una bestemmia, non si sarebbe potuta compiere senza che il potente erede al trono ne fosse stato a conoscenza. Tale è il concentrato di poteri su cui Mohammed bin Salman a soli 32 anni ha già messo le mani.
E tale è anche il terrore di perderlo, questo potere, al punto da indurre MBS, tramite uno dei suoi più stretti collaboratori, Saud al Qahtani, responsabile dell'Informazione e della gestione dei media elettronici, da ingabbiare la società saudita in una rete di account virutali, di fake news e di falsi internauti non soltanto per impedire lo sviluppo di un libera discussione ma anche per incoraggiare la delazione e bloccare la pur minima manifestazione di dissenso. Qahtani è il presunto ideatore del piano per mettere a tacere Khashoggi e risulta che abbia personalmente partecipato all'interrogatorio, con torture, di una nota militante per i diritti umani.
Il mese scorso, a Ryad è cominciato il processo a undici appartenenti alla squadra di killer mandati per uccidere Khashoggi (originariamente, 16 persone) per cinque dei quali l'accusa chiederà la pena di morte. Ma non si sa, dal momento che il processo non è pubblico, se tra gli imputati vi sia anche Qahtani e il vice capo dei Servizi d'Intelligence, al Asiri, altro fedelissimo di MBS, accusato di aver steso materialmente il piano di azione e impartito gli ordini.
Davanti a tanta reticenza e ai relativi rischi di manipolazione, un'inchiesta indipendente appariva e appare doverosa. Vedremo se la Corona Saudita collaborerà favorendo le conclusioni dell'investigatrice Agnes Callamer, che a Palazzo di Vetro si occupa di esecuzioni arbitrarie o extragiudiziali.
Ad Ankara, nel frattempo, le rivelazioni non sono finite. Il libro di tre giornalisti turchi, Abdurraman Simsek, Nazif Karaman e Ferhat Unlu, racconta in dettaglio gli ultimi istanti di Khashoggi, evidentemente sulla base delle registrazioni effettuate dai servizi segreti grazie alle quali s'è scoperto il delitto.
“Prima gli diremo: 'ti portiamo a Ryad' – spiega uno dei killer ad un altro – . Ae non viene, lo ammazzeremo e faremo sparire il corpo”. Qualche pagina più avanti è Maher Abdulaziz Mutreb a ripetere quelle parole. Khashoggi conosce Mutreb da quando lavoravano insieme all'ambasciata saudita di Londra, il giornalista come portavoce e l'agente come capo della sicurezza. Si può soltanto immaginare il terrore che Khashoggi deve aver provato quando, portato nell'ufficio del console ufficialmente per ritirare i documenti, viene accolto da Mutreb. “Vieni, siediti, siamo venuti per poitati a Ryad”, dice falsamente persuasivo il killer. La risposta di Khashoggi – racconta il libro, “Diplomatiche atrocità: i lati oscuri dell'omicidio Khashoggi “ è breve e chiara: “Io non andrò a Ryad”.

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