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Un architetto trevigiano in Cina

Tomaso Longo trascorre in Estremo Oriente due mesi l’anno: «Stanno aprendo alla nostra arte»

di Marzia Borghesi
2 minuti di lettura

TREVISO. Mentre la Cina tesse rapporti sempre più stretti con l’occidente grazie al progetto della nuova colossale “Via della Seta”, c’è chi, anche da Treviso, ha compiuto il viaggio in senso inverso, superando la proverbiale diffidenza cinese e facendo breccia in quel mondo così distante e radicalmente “altro” rispetto al nostro. La conquista della Cina da parte di Tomaso Longo, passa attraverso il mondo dell’architettura e del design.

Trentasette anni, figlio e nipote d’arte – il padre è lo scultore Luciano Longo, il nonno l’artista Luigi – studio a pochi metri da prato di Fiera, Tomaso che vanta una laurea in Architettura all’università di Venezia, un master in Architettura per l’archeologia e un dottorato al Politecnico di Milano in Architettura degli Interni e allestimento, non è certo il primo trevigiano con un piede ben calcato sul suolo cinese, dove trascorre un paio di mesi l’anno per seguire i suoi progetti di allestimento di musei per esposizioni artistiche.

Ma è il primo ad aver avviato una ricerca per il Politecnico di Milano sul “museo cinese come ponte verso la modernità”. Uno studio approfondito e multisciplinare in collaborazione con la Tonguy University di Shanghai, nel quale dimostra come la Cina sia impegnata nel recupero della grandezza del passato in un tentativo di conciliazione con gli sviluppi futuri, ovvero l’avvento del comunismo e la nascita della grande potenza economica. Una tesi affascinante che apre una finestra sull’enigma Cina.

Tomaso Longo, di cosa si occupa in Cina?

«Sto costruendo l’allestimento del museo privato di un imprenditore e artista che realizza pagode in bronzo. Siamo ad Hang Zhou, vicino a Shanghai, una delle città di seconda fascia che si stanno sviluppando molto in questi anni, perché le grandi città oramai sono esaurite. Era una delle capitali dell’impero cinese, infatti ha un bellissimo centro storico. Un altro lavoro è per uno stand per un artista alle fiera dell’arte di Shanghai».

Come ha fatto a fare breccia nella diffidenza cinese?

«Gli italiani sono ben visti e ammirati per la buona fama di cui godiamo per l’arte e la creatività. Per ogni progetto si passa attraverso una severa selezione. Si susseguono molti appuntamenti poi quando hanno deciso vogliono che cominci a lavorare il giorno dopo».

Come avvengono gli incontri di lavoro?

«Quasi sempre a tavola, durante pranzi e cene».

Perché la Cina sta aprendo le porte all’arte italiana?

«In Cina attualmente c’è una produzione artistica vivace, uno sviluppo interessante sia nel campo del design che dell’architettura. In questo contesto c’è apertura ai caratteri occidentali. Il processo che stanno seguendo è complesso. Da una parte c’è il recupero della grandezza del passato, quella dell’impero e delle tradizioni, una grandezza seguita dalla liberazione del paese con il comunismo e dallo sviluppo economico».

Com’è la nuova arte cinese?

«Slegata sia dalle tematiche idologiche che dalla mera copia dei caratteri occidentali. In Cina sono alla ricerca di una via cinese sia per l’arte che per l’architettura. Traggono l’essenza dalla tradizione cinese cercando una via cinese, per esempio con il recupero della calligrafia e il dipinto su rotolo».

Ma non è difficile collaborare con i cinesi?

«No, è un bel popolo con cui è bello collaborare. Le differenze culturali non sono poi così accentuate. Lì mi avvalgo di maestranze locali e di colleghi cinesi, soprattutto per tutti gli aspetti burocratici, le norme, i permessi».

E in Italia?

«Lavoro anche qui, ho allestito mostre e stand fieristici, per esempio al Vinitay. Per l’Expo di Milano avevo allestito lo stand cinese per l’esposizione d’arte»


 

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