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Economia
Usa-Cina, non solo dazi. La guerra dei veti incrociati all'acquisto di aziende

Chi lo conosce bene dice che è solo una tattica negoziale, minacciare di far saltare il tavolo per indurre l’avversario a fare più concessioni. Ma il rischio di una guerra commerciale tra Washington e Pechino resta concreto, come dimostra anche la ripetuta serie di “ripicche” tra i due paesi, con veti incrociati che hanno bloccato acquisizioni e alleanze sulle due sponde del Pacifico.

Il primo stop è arrivato lo scorso anno da Trump, messosi di traverso all’acquisto, per 1,3 miliardi di dollari, di Lattice da parte di Canyon Bridge Capital Partners, gruppo privato controllato dal fondo d’investimento statale cinese. Il bis è seguito lo scorso gennaio con l’affossamento dell’acquisizione, per 1,2 miliardi di dollari, di MoneyGram, gruppo americano leader nel settore delle rimesse di denaro.

trump e figlio ape
 

Moneygram era finito nel mirino di Ant Financial, il braccio finanziario di Alibaba, colosso dell’e-commerce fondato dal 54enne imprenditore cinese Jack Ma, che con 39,7 miliardi di dollari di patrimonio personale è attualmente il diciannovesimo uomo più ricco del pianeta, peraltro a grande distanza dal rivale Jeff Bezos, fondatore e proprietario di Amazon che può vantare un patrimonio di 117,9 miliardi che lo rende di gran lunga il più ricco al mondo.

Dopo neppure un mese, a febbraio, i vertici delle agenzie di intelligence di Washington hanno ufficialmente suggerito il boicottaggio degli smartphone di Huawei e Zte dicendosi “preoccupati circa il rischio che qualsiasi compagnia o entità legata a governi stranieri che non condividono i nostri valori possa guadagnare posizioni di potere all’interno della nostra rete di telecomunicazioni”.

cina ape
 

Contemporaneamente la Sec bloccava l’acquisto da parte del gruppo Chongqing Casin Enterprise del magnate cinese Lu Shengju del Chicago Stock Exchange, ufficialmente perché l’authority non è riuscita ad ottenere le informazioni necessarie incluse in particolare le entità coinvolte nel finanziamento dell’acquisizione. Ciò avrebbe “generato significativi dubbi” circa il fatto che la stessa Sec sarebbe poi stata in grado di monitorare l’operatività del listino se l’operazione fosse andata in porto.

Eppure lo stop è arrivato dopo che nel dicembre 2016 (prima che Trump si insediasse alla Casa Bianca) il Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti (Committee on Foreign Investment in the United States) aveva dato il suo via libera, dichiarando che non vi erano “timori per la sicurezza nazionale”. Ultime sono poi arrivate in queste settimane le bordate contro l’import di alluminio e acciaio dalla Cina. Pechino per il momento ha preferito non alzare troppo il tono della polemica, ma intanto ha bloccato la vendita per 19 miliardi di dollari della divisione microchip (un settore chiave per la Cina) di Toshiba ad un consorzio di investitori guidato dalla società statunitense di private equity Bain Capital nel quale era presente anche Apple.

La Cina ha però avvertito che se Trump non cambierà idea sui dazi commerciali, è già pronta una lista di 128 prodotti a stelle e strisce, tra cui carne di maiale, frutta, tubi di acciaio, scarti in alluminio, vino ed etanolo, per un totale di 3 miliardi di dollari di scambi annui su cui verrebbero imposte tariffe di ritorsione equivalenti a quelle proposte dagli Usa sull’alluminio (15%) e sull’acciaio (25%). Una risposta tutto sommato ancora contenuta visto che i dazi annunciati da Trump, che però poi ha “aperto” alla possibilità di trattative per evitare una vera e propria guerra commerciale, riguardano ben 1.300 prodotti per un interscambio complessivo di circa 60 miliardi di dollari.

(Segue...)

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