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Politica
Elezioni 2018 e fine legislatura, cinque Regioni accelerano sull'autonomia
Roberto Maroni

Roma celebra la conferenza stampa di fine mandato del premier Paolo Gentiloni, che sale al Quirinale dal Capo dello Stato Sergio Mattarella: inizia così il percorso di fine legislatura che porterà alle elezioni politiche del 4 marzo 2018. Facendo le cose subito e per bene, seguendo come le regole di un rito previsto dalla Costituzione, considerata come una Bibbia, qualcosa di immutabile, ma vecchia di 70 anni. Il sistema che ruota intorno alla attuale legge fondamentale dello Stato, infatti, sembra non esprimere una classe politica adeguata. Le prove sono diverse. Gli ultimi governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni), per come ci si è arrivati, non perfettamente congruenti con la volontà popolare delle elezioni politiche dell’aprile 2008 e del febbraio 2013. Il fatto che già si sa che dalle prossime politiche del marzo 2018 non uscirà una maggioranza chiara e che i tanti notabili avranno riservato lo scranno in Parlamento e nessuno fa un passo indietro. Ulteriore prova di quanto la Costituzione non abbia fatto migliorare politicamente il Paese (come la cultura politica degli italiani, che in un certo senso se lo meritano, come quelle parole dell’inno nazionale: “Italia schiava di Roma”, ma in democrazia nessuno è schiavo di nessuno, a maggior ragione simbolicamente),  il fatto che la seconda e  terza carica dello Stato, Pietro Grasso (presidente del Senato) e Laura Boldrini (della Camera), aderiscono al movimento politico a sinistra del Pd: Liberi e Uguali (un errore già nel nome, gli uomini sono liberi perché diversi, sono uguali di fronte alla legge), dimostrando che l’Italia è un Paese catto-comunista (altro errore, il comunismo prevede l’ateismo di Stato e il messaggio principale di Cristo  è l’immortalità dell’anima e non la giustizia sociale). Intanto quello che era il primo partito italiano, il Pd di Matteo Renzi, che alle elezioni europee del maggio 2014 ottenne oltre il 40% dei voti, oggi secondo i sondaggi, col fallimento del referendum costituzionale del dicembre 2016 e la difesa della sottosegretaria Maria Elena Boschi nel caso Etruria (che sarà pure rieletta in un collegio sicuro, ma ciò non corrisponde all’opinione della maggioranza degli italiani), si attesta tra il 20 e il 25%. Mentre quello che nelle previsioni di voto è il primo partito di maggioranza, il Movimento 5 Stelle, col candidato premier Luigi Di Maio, sembra avere anch’esso una visione idealizzata della Costituzione.

La buona notizia è che dopo Lombardia e Veneto, guidate da Roberto Maroni e Luca Zaia della Lega, dopo Emilia Romagna (Stefano Bonaccini, Pd) e Liguria (Giovanni Toti, Forza Italia), anche la Regione Piemonte presieduta da Sergio Chiamparino (Pd) chiederà l’autonomia. Una bella notizia per l’Italia, da cui ripartire. Politici di aree diverse, con maniere differenti – chi con il referendum consultivo, chi seguendo il percorso legislativo, previsto dall’articolo 116 terzo comma della Costituzione e finora mai attuato - sono già cinque le Regioni (presto se ne aggiungeranno altre, come la Puglia) che dimostrano di aver intrapreso la strada lunga ma giusta: quella dell’autonomia prima, e poi, via via educando gli italiani (cresciuti nel catto-comunismo), si arriverà al federalismo, una caratteristica tra le migliori della democrazia (non a caso i Paesi più ricchi del mondo e d’Europa,  Usa e Germania, sono repubbliche federali). Il cittadino, l’individuo è la democrazia e l’autonomia fa i suoi interessi. Così si arriverà anche alla elezione diretta dei politici e persino dei pubblici ministeri (il cittadino elegge e si fa giudicare da chi conosce quasi di persona). Ulteriore passo: il federalismo fiscale. Io cittadino lavoro, pago le tasse e voglio che la notevole parte dei soldi da me versati rimangono sul mio territorio (salvi gli ovvi interesse e solidarietà nazionali).

 

 

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