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Politica
Elezioni 2018: Pd e sinistra, dal ko elettorale all’estinzione?
Lapresse


Stavolta, dopo le elezioni-tsunami con M5S e Lega sugli altari e con Pd, Leu e le cianfrusaglie della sinistra nella polvere, non ci si mette “una pezza”. Disastro. Disastro annunciato. Che fare, adesso, al di là dei riti consolatori quanto illusori delle ripartenze? Il terremoto è passato. Ma restano sotto le macerie i sogni della sinistra bocciata all’esame delle urne perché lontana dal Paese, sorda ai suoi richiami. Una sinistra ritenuta un orpello: ora più divisa, rancorosa, disorientata che mai. Intorno, i cocci di Pd, Leu, Pap, la poltiglia delle sigle con “falce e martello” ridotte allo zero virgola, dopo il peggior risultato elettorale della sinistra italiana dal dopoguerra, una debacle che non concede alibi a chi già minimizza, per salvarsi la coscienza e la cadrega, e incasella il flop del 4 marzo come un incidente di percorso. Certo, se Atene piange Sparta non ride. La coalizione di centrodestra, pur in testa, non ha la maggioranza parlamentare; idem per i 5S, primo partito ma, senza alleati, impossibilitati a mettere all’incasso l’exploit delle urne.

Ciò, tuttavia, non cambia il dato politico del voto che premia una parte (specie i 5S e la Lega) e punisce un’altra (Pd e Leu in primis) producendo uno stallo totale anche per una legge elettorale-truffa&vergogna, un boomerang per lo stesso Pd. Tocca a Mattarella districarsi nel ginepraio andando oltre il monito alla “responsabilità” per “l’interesse del Paese” rivolto a tutte le forze politiche, indisponibili, per ora, a “concessioni” verso amici e nemici, inchiodate fra minacce e lusinghe, pregiudizi e pregiudiziali. Un rebus che può sfociare in un pericoloso gioco dell’oca, non escludendo un nuovo rischioso ricorso alle urne. Servirebbe la lungimirante ponderatezza rivoluzionaria di un Aldo Moro quando nel 1976 convinse con il ragionamento politico il recalcitrante gruppo parlamentare Dc a “mettersi insieme” a quelli del Pci per salvare lo Stato e il Paese, condannando se stesso. Oggi a Mattarella serve tempo mentre al Paese serve un governo che però non ci sarà fino a quando i partiti non scopriranno tutte le carte e porranno fine al redde rationem interno.

La prima mossa tocca al Partito democratico, a quel che resta di un partito che il 4 marzo ha raggiunto un record negativo passando in meno di quattro anni dal 40,8% delle Europee a meno del 19% delle Politiche. Il Pd rischia l’irrilevanza politica, addirittura di scomparire. C’è questa consapevolezza nel gruppo dirigente? Alla direzione di lunedì 12 marzo saranno formalizzate – si dice - le dimissioni di Matteo Renzi, annunciate per lettera al presidente Orfini. Nella conferenza stampa a caldo dopo il voto, Renzi si è esibito in una maldestra invettiva contro tutto e tutti accusando gli elettori di essere diventati insensati ed estremisti, preda del laccio di populisti e barbari. Da lì, il Pd ha proseguito nella propria via crucis: le prime dimissioni del segretario, “pasticciate”; quindi il carnevale interno di queste ore fra pompieri e incendiari, processi e autocandidature.

Il partito diventa così terra di nessuno. Manca il manico. Un leader di un grande partito di governo non si nasconde dietro una lettera: va alla assise del proprio partito prendendosi tutte le responsabilità del caso, analizzando le cause del tracollo delle urne, proponendo una via d’uscita per tentare il rilancio, dando un messaggio ai propri iscritti ed elettori, alla politica, al Paese. Poi si tirano le conclusioni, fino alle dimissioni, se altra via non c’è. Qui il metodo diventa sostanza, a dimostrazione che il ko elettorale è frutto della inadeguatezza di un intero gruppo dirigente. Ogni partito ha le sue regole e poco conta come si giunge ai vertici, in questo caso con primarie annunciate sempre come toccasana ma sempre portatrici di dubbi e guai. Nel Pci e nella Dc i leader diventavano tali dopo un lungo iter, frutto di una dura e ampia selezione democratica. Il Pd, ovvio, non è paragonabile a questi due partiti da cui nasce e Renzi non è paragonabile ai capi di quei grandi partiti ideologizzati e di massa. Matteo è stato paragonato a Craxi che – come noto – diventò il capo del Psi il 16 luglio 1976 con il colpo di mano dei quarantenni al Midas. Bettino rivoltò il suo partito come un calzino, da morente (9% dei voti) a protagonista (con oltre il 14%) in Italia e nel mondo.

Un personaggio dal carattere impulsivo e brusco, decisionista, non privo di limiti e contraddizioni, anche inquietanti. Ma un leader e uno statista di alto profilo, che rifiutava il misticismo delle parole e dell’ideologia, di buon senso e di grande sincerità, dedito alla “politica delle cose”, capace di pensare in grande, di volare alto, di riaffermare l’identità socialista, un partito svincolato dal Pci e dal comunismo, restituito alle sue originali ragioni riformiste, alla sua vocazione libertaria, ad una decisa scelta occidentale in favore dell’Italia. Fu questo, nel bene, l’”effetto Craxi”. Poi l’evoluzione negativa e l’epilogo di Mani pulite che lo travolse, pagando per tutti. L’effetto Matteo c’è stato producendo qualche sprazzo di novità positive, tanti annunci e molte illusioni, lo smembramento e il forte ridimensionamento elettorale e politico del Pd, il ko della sinistra e del centrosinistra.

La sconfitta del Pd, va ribadito, è la sconfitta di una leadership, quella di Renzi e del suo gruppo nato alla Leopolda. Serve una svolta, un colpo d’ala, una spietata sincera autocritica, tutto meno che incaponirsi in trattative per avere una poltrona o peggio, per riaggregare i suoi in fuga, con il miraggio di un nuovo partito per tentare la sorte della rivincita. Tocca a Matteo, nell’ora per lui più difficile, indicare una via diversa, un progetto politico nuovo, dimostrare di essere ancora una risorsa per la politica e per il Paese.

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