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Politica
Renzi in crisi: ma non sarà il flop del Pd in Sicilia a mandarlo ko

Fa di tutto Matteo Renzi per confinare in ambito locale le prossime elezioni regionali siciliane depotenziandone i possibili contraccolpi sulla politica nazionale. L’annunciata batosta del Partito democratico nel voto del 5 novembre è l’ultima occasione prima delle elezioni politiche di inizio 2018 per trasformare i mugugni nel partito in aperta contestazione politica, accendere la scintilla della rivolta interna e rimettere in discussione la leadership di Renzi bruciando ogni sua chances per tornare a Palazzo Chigi.

Una eventualità tutt’altro che facile, vuoi per la composizione del gruppo dirigente nazionale e non a larghissima maggioranza renziana, vuoi per la mancanza di “cospiratori” adeguati e davvero decisi a tentare il “golpe”, vuoi perché sarebbe puro autolesionismo sul piano politico e personale rimettere tutto in discussione con la difficile prova elettorale nazionale alle porte. Si fa riferimento al Midas quando il 16 luglio 1976 Bettino Craxi fu eletto, 42enne, leader del Psi dopo la rivolta dei “quarantenni” contro il segretario Francesco De Martino e i vecchi notabili accusati di aver portato il partito socialista sull’orlo del precipizio, sotto il 10% (9,64%) alle elezioni politiche del mese precedente (21 giugno 1976), con la tenuta della Dc e soprattutto con il gran balzo storico del Pci berlingueriano, al 34,37%. Craxi diventò così il padre-padrone del Psi, rivoltandolo come un calzino sul piano ideologico, politico, organizzativo e dell’immagine. L’effetto-Craxi incise profondamente nella politica italiana e oltre perché basato su un progetto “rivoluzionario” di ridefinizione dell’identità della sinistra, nonché della sua tattica e della sua strategia. Pur con forti limiti e contraddizioni, Bettino pensava in grande e teneva dritta la barra dell’autonomismo riformista socialista per innovare la sinistra slegandola dal cappio comunista e per rinnovare l’Italia svincolandola dall’egemonia democristiana. Il resto, nel bene e nel male, è consegnato alla storia.

Oggi, in un contesto ben diverso, anche il Pd renziano è in crisi, al pari del Psi di allora prima dell’avvento di Craxi. Il partito “nuovo” della Leopolda si è logorato per il suo arrogante schematismo, per la sua miopia e superficialità culturale, per il cattivo uso del potere: si è inceppato, perdendo via via la spinta propulsiva ideale e politica, ha bruciato tutti i ponti con la sinistra storica e le sue radici ma non ha tracciato una credibile rotta alternativa, è rimasto in mezzo al guado, senza sbocchi, inadeguato a far fronte alla crisi del Paese. Il Pd riassume oggi i limiti e le debolezze del Pci, del Psi, della Dc di allora senza averne ereditato i valori e i pregi, la capacità di governare i processi e sciogliere i nodi: partito rissoso, comitato elettorale e d’affari, partito degli assessori e dei ministri, incapace di intercettare i bisogni e le aspettative dei cittadini, specie dei giovani. Un Pd così, o risorge ritrovando uno slancio morale ma anche una capacità critica di analisi ridefinendo l’assetto “ideologico”, culturale, politico e organizzativo di tutto il partito, o perisce.

Chi accetta la nuova sfida? Franceschini, Minniti, Gentiloni, Del Rio – pur diversi fra loro anche negli obiettivi personali – tenteranno dopo il flop delle urne in Sicilia di alzare il tiro del confronto interno puntando sulla ridefinizione dei contenuti, intercettando i malumori di una base recalcitrante e di un corpo elettorale deluso, ma evitando l’azzardo del colpo di mano, senza mettere in discussione (per adesso) la leadership renziana. Da parte sua Renzi ha due carte da giocare. La prima è il richiamo della bandiera: tutti a raccolta ai remi per andare al voto politico con questa legge elettorale dimostrando che il Pd, alla conta, resta il primo partito: tutti sul campo e tutti “premiati” con l’alternativa che se il pidì crolla, tutti a casa! La seconda è tentare di giocare in extremis – mai dire mai! - lo strumento della nuova legge elettorale – cercando di fare approvare il cosiddetto Rosatellum – per tenere in mano il bandolo della matassa, cioè per decidere chi nel Pd alle prossime elezioni politiche sarà in lista e chi no. E’ la politica della carota e del bastone.

Oltre un terzo dei deputati dovrebbe essere eletto in collegi uninominali maggioritari, spingendo così i partiti a coalizzarsi. Coalizioni non locali ma nazionali, in modo che saranno i “capi” dei partiti a Roma che – in barba dell’articolo 67 della Costituzione (ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato) - decideranno e designeranno i candidati. In tal modo, chi nel Partito democratico tentasse di rimettere in discussione il segretario dopo la prevista debacle del voto in Sicilia, sa che o Renzi salta davvero riaprendo i giochi nel partito, o Renzi farà fuori chiunque avrà tentato di disarcionarlo. Qui siamo, nel permanere del vento dell’anti politica e del solco fra palazzo e cittadini. In un quadro politico sempre frammentato e debole, con uno scenario sostanzialmente diviso in tre anche nel post-voto (Pd, M5S, Centrodestra), il rischio di ingovernabilità è reale. La via d’uscita dopo il voto? O, pro tempore, il governo del presidente (Gentiloni bis?) con il “Si” delle cancellerie europee ma il “No” di M5S, Lega, FdI e il rospo nel gozzo degli italiani, oppure, “pro-salvezza nazionale”, il governissimo Pd-Forza Italia&C. Berlusconi, apparentemente disinteressato, lascia per ora a Renzi il lavoro “sporco”, ben sapendo che dopo il voto politico Matteo busserà alla sua porta di Arcore dove sarà accolto (quasi) come “figliol prodigo”. Così come in frange del Pd e dintorni c’è la convinzione che Renzi e il renzismo abbiano l’acqua alla gola ma senza alternative oggi credibili, così negli italiani c’è la ripulsa verso una intesa di governo Renzi-Berlusconi ma la maggioranza l’accetterebbe per paura di salti nel buio.

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