Con una consultazione interna dall’esito estremamente equilibrato, il partito di governo sudafricano ANC (African National Congress) ha scelto questa settimana come suo nuovo leader l’ex sindacalista e ora businessman multimiliardario, Cyril Ramaphosa, destinato tra meno di due anni a diventare anche presidente della prima economia del continente.

 

L’elezione va inquadrata in un contesto segnato sia dal deterioramento della situazione economica del Sudafrica sia dalla crescente disillusione nei confronti di un partito che, dal 1994 a oggi, ha presieduto al modellamento di una società profondamente iniqua. Il cambio ai vertici dell’ANC si è reso quindi necessario per cercare di risollevarne le sorti, soprattutto dopo i vari scandali e i guai giudiziari del presidente in carica, Jacob Zuma, considerato a capo di una cerchia di potere corrotta e al servizio di determinate sezioni dell’élite economica sudafricana.

 

Nella corsa alla guida del partito, Ramaphosa era in sostanza l’espressione dell’ala pragmatica e pro-business, mentre la sua rivale, Nkosazana Dlamini-Zuma, si era presentata con una piattaforma apparentemente più progressista, pur rappresentando gli interessi della base di potere dell’attuale presidente, del quale né è stata la consorte.

 

Il successo di Ramaphosa è la testimonianza dell’influenza determinante del capitalismo indigeno e internazionale sull’ANC, la cui nuova leadership sarà chiamata a creare le condizioni di mercato più favorevoli possibili dopo il discredito e la sfiducia generati nel corso della presidenza Zuma.

 

La borsa sudafricana e la valuta locale (rand) hanno risposto positivamente all’elezione di Ramaphosa, a conferma del sostegno incontrato dal 65enne ex leader sindacale negli ambienti del business nazionale ed estero. La sua parabola personale e politica è d’altra parte l’incarnazione stessa del percorso fatto dal partito che fu di Nelson Mandela, passato da movimento popolare di liberazione a strumento di una ristretta élite di colore ben disposta al compromesso con il “capitalismo bianco” e, grazie a ciò, arricchitasi enormemente.

 

Ramaphosa è stato in passato il numero uno del più importante sindacato sudafricano, quello dei minatori (NUM), per poi diventare segretario generale dell’ANC e svolgere un ruolo di primo piano nelle trattative che avrebbero portato alla fine della segregazione. Dalla metà degli anni Novanta, poi, Ramaphosa ha inaugurato una carriera imprenditoriale folgorante che lo ha proiettato, tra l’altro, alla guida del colosso delle telecomunicazioni sudafricano MTN e ad avere interessi in grandi aziende e banche sia nel suo paese che all’estero.

 

Viste le delicate condizioni politiche, sociali ed economiche del Sudafrica odierno, l’agenda con la quale Ramaphosa ha condotto la sua campagna elettorale per la leadership dell’ANC è apparsa comprensibilmente ambigua. Ancora nel suo discorso che ha chiuso il congresso del partito a Johannesburg, Ramaphosa ha invocato una “trasformazione socio-economica radicale” per il paese, nascondendo le implicazioni reazionarie dell’approccio neo-liberista che ciò comporta, dietro a slogan che promettono “crescita, posti di lavoro e lotta alle disuguaglianze”.

 

Più delle promesse di Ramaphosa contano però le reazioni al suo successo del business sudafricano e degli ambienti finanziari internazionali. L’agenzia di rating Moody’s ha ad esempio parlato di un “cambiamento positivo” per l’economia sudafricana che potrebbe far aumentare la “fiducia del mondo degli affari” e invertire il “graduale deterioramento dei fondamentali del credito” del Sudafrica.

 

Un paio di risoluzioni approvate dall’ANC sono sembrate andare invece in direzione contraria alla più che probabile linea neo-liberista di Ramaphosa. Il partito ha cioè promesso la nazionalizzazione della banca centrale sudafricana e l’espropriazione delle terre ancora in mano alla minoranza bianca.

 

Per quanto riguarda la prima iniziativa, il governo ha già assicurato che di fatto non ci saranno cambiamenti nelle funzioni e nell’indipendenza della banca centrale, oggi in mano privata. La questione delle terre è a sua volta più un annuncio propagandistico che serve a bilanciare le iniziative “anti working-class” in preparazione, facendo leva sul carico emotivo di un tema intrecciato alle ingiustizie razziali ereditate dall’epoca dell’apartheid.

 

Il governo dell’ANC ha comunque già fatto sapere che i tempi di eventuali espropri non sono ancora stati decisi e, in ogni caso, non saranno tollerate occupazioni illegali né episodi di violenza simili a quelli che caratterizzarono misure simili nel vicino Zimbabwe. Proprio come in quest’ultimo paese, peraltro, è altamente probabile che anche in Sudafrica una possibile redistribuzione delle terre, detenute ancora in larga misura dai bianchi, finirebbe per avere caratteri clientelari e favorire così un numero limitato di persone legate alla classe dirigente di colore dell’ANC.

 

A dare un’idea degli orientamenti che guideranno Ramaphosa nell’incarico di leader dell’ANC, ma anche di probabile presidente sudafricano dopo le elezioni del 2019, è il suo ruolo nel massacro di minatori nella località di Marikana, avvenuto nell’agosto del 2012. In quell’estate i lavoratori erano in sciopero contro la compagnia britannica Lonmin, proprietaria della miniera, per le pessime condizioni di lavoro e gli stipendi miseri. Ramaphosa sedeva nel consiglio di amministrazione della società e, in quanto membro di spicco dell’ANC ed ex leader sindacale, secondo molti avrebbe potuto mediare nella disputa che aveva portato allo sciopero.

 

Al contrario, Ramaphosa ebbe una parte importante nella strage che sarebbe seguita. Il neo-leader dell’ANC indirizzò infatti una comunicazione ai dirigenti di Lonmin, definendo il comportamento degli scioperanti “ignobilmente criminale” e invitando le forze di polizia ad agire, come in effetti fecero di lì a poco. Il risultato fu la morte di 34 lavoratori e decine di feriti, ma Ramaphosa sarebbe stato sollevato da qualsiasi responsabilità dalle conclusioni di un’indagine ufficiale sull’accaduto.

 

Il compito assegnato questa settimana a Ramaphosa di salvare l’African National Congress e il capitalismo sudafricano non sarà ad ogni modo agevole. In primo luogo, questo paese è attraversato da esplosive tensioni sociali, manifestatesi in un’impennata di scioperi e proteste, che renderanno difficile l’implementazione di misure destinate a favorire il “clima” per il business privato.

 

Molti giornali, soprattutto occidentali, hanno infine espresso preoccupazione per gli equilibri all’interno dell’organo direttivo dell’ANC usciti dal congresso di questa settimana. La fazione di Ramaphosa non dispone infatti di una chiara maggioranza che appoggi la sua agenda nei prossimi cinque anni, poiché i sostenitori di Jacob Zuma e di quella che era la sua candidata alla leadership, l’ex moglie Nkosazana Dlamini-Zuma, hanno ottenuto circa la metà dei seggi in palio. La maggioranza interna al partito sarà perciò decisa da una manciata di delegati la cui fedeltà appare al momento incerta.

 

Oltre che dalle resistenze nel paese, il programma di Ramaphosa sarà così ostacolato probabilmente da subito anche dalle divisioni all’interno di un partito già di per sé in profonda crisi e sempre più lontano da una base elettorale che, pur restando indiscutibilmente maggioranza nel paese, appare ormai da qualche anno in rapido restringimento.

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