La conferenza annuale del Partito Laburista britannico, tenuta questa settimana a Liverpool, è stata dominata dalla questione dell’approccio all’imminente Brexit. Le divisioni sono emerse fin dalle prime battute del dibattito e la risoluzione finale sull’uscita di Londra dall’Unione Europea ha rispecchiato la necessità della leadership di Jeremy Corbyn di mediare tra le varie posizioni all’interno del partito. Il risultato finale, così, è apparso non del tutto chiaro e, soprattutto, dipenderà dall’esito dei complicati negoziati in atto tra Bruxelles e il governo conservatore di Theresa May.

 

 

Il clima nel “Labour” era apparso subito chiaro all’apertura dei lavori, quando due leader appartenenti a correnti diverse del partito avevano rilasciato dichiarazioni contraddittorie e, in seguito, si erano adoperati per ostentare una sostanziale identità di vedute. Il numero due di fatto del partito, John McDonnell, fedelissimo di Corbyn e ministro ombra delle Finanze, aveva assicurato che un eventuale nuovo referendum sulle condizioni di uscita della Gran Bretagna dall’UE non avrebbe offerto agli elettori alcuna scelta per tenere il paese nell’Unione.

 

Poco dopo, il segretario ombra per la Brexit, Keir Starmer, allineato alla destra “blairita”del partito, non aveva invece escluso quest’ultima ipotesi. Pur non appoggiando esplicitamente un secondo voto popolare sulla Brexit, Starmer lasciava questa ipotesi sul tavolo, in attesa dei prossimi sviluppi politici, e attribuiva la “confusione” delle parole di McDonnell all’affaticamento di quest’ultimo dopo una lunga serie di interviste rilasciate alla stampa durante la conferenza.

 

McDonnell aveva finito per confermare la posizione di Starmer, accettando l’ipotesi del secondo referendum per restare nell’Unione Europea. Il cambio di rotta del numero due dei laburisti riflette non tanto il suo logorio fisico o mentale, quanto l’intenzione ormai consolidata della leadership di Corbyn di tenere unito il partito e, inevitabilmente, concedere terreno ai suoi oppositori interni.

 

La posizione ufficiale del “Labour” nel referendum del 2016 era a favore della permanenza nell’UE, ma dopo il voto è prevalsa l’accettazione del risultato e, al di là delle divisioni, il partito ha sposato l’opzione della cosiddetta “soft Brexit”, ovvero una separazione morbida che consenta a Londra di avere accesso al mercato unico e, in generale, di conservare un rapporto privilegiato con l’Europa.

 

Questa posizione e l’ammorbidimento della leadership di “sinistra” di Jeremy Corbyn è da ricondurre principalmente alle pressioni sul partito da parte del business britannico che guarda con paura alla possibilità di uno strappo senza un accordo con Bruxelles. Un’ipotesi, quest’ultima, tutt’altro che improbabile, vista la crescente opposizione nel governo May e nel Partito Conservatore alle condizioni stabilite dal primo ministro per raggiungere un’intesa con i negoziatori dell’Unione Europea.

 

Le forze anti-Brexit operano di concerto con la destra laburista e spingono per allineare interamente il partito a una posizione più conciliante con Bruxelles. Se Corbyn e McDonnell continuano a mostrarsi disponibili in questo senso, malgrado le persistenti manovre interne per rovesciare la leadership, le loro posizioni e quelle del partito devono tenere in considerazione anche un altro fattore.

 

Una svolta formale contro la Brexit rischierebbe cioè di suscitare le furie della base elettorale potenziale dei laburisti in particolare tra la “working-class” delle aree, nel nord e nell’entroterra del paese, devastate dalla deindustrializzazione e che aveva votato per l’uscita di Londra da un’Unione Europea vista come strumento dei grandi interessi economici e finanziari transnazionali.

 

Le contraddizioni sulla Brexit e la posizione finale del partito decisamente poco chiara sono dunque da collegare alla cautela di Corbyn in un momento in cui la sua leadership sta beneficiando enormemente dallo spostamento a sinistra dell’elettorato britannico.

 

Alla fine, la risoluzione approvata dai delegati del “Labour” ha assegnato a possibili elezioni anticipate la priorità della battaglia politica contro il governo conservatore. Se, però, la May dovesse restare al suo posto fino all’appuntamento con la Brexit nella primavera del 2019, il Partito Laburista appoggerebbe l’idea di un referendum sull’accordo che il primo ministro estrarrà da Bruxelles e forse, ma non necessariamente, sulla stessa permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea.

 

Nonostante le rassicurazioni e la linea morbida della leadership laburista, sono in molti a Londra e a Bruxelles a temere che il principale partito di opposizione in Gran Bretagna contribuisca a far naufragare un eventuale accordo tra la May e l’UE per arrivare a un voto anticipato. Queste ansie nascondono i timori per un’uscita dall’Unione senza paracadute, con conseguenze pesanti sul business britannico che dipende dal mercato europeo, ma, a ben vedere, anche per una possibile vittoria elettorale di Corbyn e il suo insediamento a Downing Street.

 

Manovre dirette contro Corbyn sono in moto fin dalla sua ascesa alla direzione del “Labour”. Tentativi di spallate, manipolazione delle regole del partito e campagne diffamatorie nei suoi confronti sono state tentate e continuano a essere tentate per togliere di mezzo un leader considerato troppo a sinistra e che sta alimentando aspettative tra gli elettori britannici per un’agenda progressista da tempo respinta da praticamente tutto il panorama politico britannico.

 

La Brexit e le macchinazioni attorno a essa si sovrapporranno perciò alla guerra contro la leadership di Jeremy Corbyn nelle prossime settimane. Tanto più che la posizione del governo May appare sempre più precaria, come confermano le voci insistenti sia di una mozione interna al Partito Conservatore per rimuovere il primo ministro sia, come ha scritto nel fine settimana il Sunday Times, di un possibile voto anticipato nel mese di novembre.

 

In caso di elezioni prima della Brexit e con la possibilità concreta di un successo laburista, le pressioni aumenterebbero enormemente per spingere il partito di Corbyn ad assumere una posizione ferma contro l’uscita dall’Unione o, quanto meno, per un addio “soft” con il mantenimento dell’accesso al mercato unico.

La prospettiva di un futuro con Corbyn alla guida del governo implica anche il moltiplicarsi delle trame contro la sua leadership, sia all’interno del partito sia tra la maggior parte dei media ufficiali, del business britannico e dell’apparato militare e dell’intelligence.

 

Le preoccupazioni in questi ambienti per la popolarità di Corbyn e il radicalizzarsi dell’elettorato laburista sono con ogni probabilità aumentate dopo la conferenza di Liverpool. I delegati del partito hanno infatti votato una piattaforma con svariati elementi molto più a sinistra dell’agenda del “Labour” degli ultimi due decenni e che include, tra l’altro, la nazionalizzazione delle aziende che erogano servizi pubblici e il trasferimento ai lavoratori del dieci per cento delle quote delle compagnie private con più di 250 dipendenti.

 

In risposta infine alla caccia alle streghe che negli ultimi mesi ha cercato di dipingere Corbyn e i suoi sostenitori come anti-semiti, il leader laburista ha promesso di riconoscere lo stato di Palestina quando sarà al governo, mentre la conferenza del partito ha approvato una mozione che chiede lo stop alla vendita di armi a Israele e un’inchiesta internazionale sui crimini commessi dallo stesso stato ebraico contro il popolo palestinese.

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