L’evolversi del caso del giornalista saudita Jamal Khashoggi sta sempre più coinvolgendo un’amministrazione Trump impegnata a concordare con gli ambienti reali a Riyadh una versione degli eventi che salvaguardi l’alleanza con gli Stati Uniti. La vicenda ha però svariate implicazioni che si incrociano alle mire strategiche di USA, Turchia e Arabia Saudita, così come alle divisioni interne ai governi di Washington e Riyadh, col rischio di produrre una miscela esplosiva che minaccia di esplodere qualunque sia la soluzione alla fine proposta dalle parti coinvolte.

 

Il viaggio improvvisato del segretario di Stato americano, Mike Pompeo, in Arabia Saudita e in Turchia ha dato qualche indicazione sia della posta in gioco sia della possibile via d’uscita per il regime del Golfo Persico. Il presupposto dell’azione della Casa Bianca è chiaramente la natura cruciale dell’alleato saudita per la propria strategia mediorientale, basata su una rinnovata offensiva a tutto campo contro l’Iran.

 

 

Le critiche per avere boicottato l’accordo sul nucleare di Vienna del 2015 impongono infatti per Trump la creazione di una solida alleanza in Medio Oriente, basata in sostanza su Israele e Arabia, necessaria a sostenere lo sforzo per il contenimento della Repubblica Islamica. In particolare, il reintegro delle sanzioni riguardanti l’export petrolifero iraniano, previsto per il 5 novembre, comporta un aumento della produzione di greggio da parte di Riyadh, in modo da rimpiazzare la quota di Teheran che dovrebbe in teoria sparire dal mercato globale.

 

Da un punto di vista morale e di immagine, inoltre, la già assurda campagna di demonizzazione dell’Iran, il cui governo è ritenuto responsabile in pratica di ogni male che affligge il Medio Oriente, rischia di naufragare completamente di fronte all’evidenza di un regime, come quello saudita, smascherato come sanguinario e senza scrupoli anche dalla solitamente docile stampa “mainstream”.

 

L’equilibrismo americano nella gestione del caso Khashoggi deve dunque tenere in considerazione la stabilità e l’alleanza saudita da un lato e, dall’altro, le pressioni dell’opinione pubblica internazionale e quelle provenienti dall’interno dello stesso apparato di potere degli Stati Uniti. In determinati ambienti di Washington, è evidente da tempo il risentimento nei confronti dell’attuale leadership saudita e, in particolare, di colui che è considerato il vero detentore del potere, l’erede al trono Mohammed bin Salman (MBS). La condotta di quest’ultimo sul fronte domestico e internazionale è un mix di criminalità e sconsideratezza, tanto da screditare irreparabilmente il regime e mettere a rischio i rapporti con i suoi alleati.

 

Clamorose in questo senso sono state le parole del senatore repubblicano Lindsey Graham, scagliatosi sugli alleati sauditi con il linguaggio solitamente riservato ai regimi bersaglio di aggressioni militari o colpi di stato. Graham ha sparato a zero soprattutto su MBS, fino ad ora punto di riferimento della partnership con i sauditi promossa dalla Casa Bianca e con ogni probabilità diretto responsabile dell’assassinio di Khashoggi.

 

Per Graham, il giovane principe saudita dovrà essere oggetto di provvedimenti da parte del sovrano suo padre o, se ciò non dovesse accadere, da parte del governo USA. Nel ricordare che Washington può “scegliere tra molte persone per bene”, il senatore della Carolina del Sud ha confermato il desiderio di molti negli Stati Uniti di vedere un rimpasto nella linea di successione al trono saudita, quasi certamente a favore del principe Mohammed bin Nayef, ritenuto da molti come l’uomo della CIA a Riyadh.

 

Incidentalmente, Graham è anche uno dei maggiori beneficiari dei contributi elettorali del colosso americano Lockheed Martin, il cui sistema di difesa anti-missilistico THAAD fa parte dell’accordo di fornitura di armamenti da 110 miliardi di dollari che Trump ha ufficialmente siglato con la monarchia wahhabita.

 

L’intesa è in realtà poco più che una dichiarazione di intenti e proprio nei giorni precedenti la sparizione di Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul erano iniziati a circolare seri dubbi sull’intenzione di Riyadh di ratificare l’acquisto di armi dagli Stati Uniti. Anzi, nonostante l’aperta opposizione americana, i sauditi stanno da tempo flirtando con l’idea di ottenere il sistema di difesa russo S-400, considerato più efficace e meno dispendioso del THAAD di Lockheed Martin.

 

Non pochi osservatori ritengono comunque probabile che il caso Khashoggi sarà alla fine risolto nel modo più indolore possibile da Trump e dalla casa regnante saudita, anche se ciò dovesse comportare la deposizione del principe Mohammed bin Salman. Una dichiarazione rilasciata martedì da Pompeo poco prima di partire da Riyadh per Ankara ha forse lasciato intravedere proprio un provvedimento di questo genere. Il segretario di Stato USA ha cioè raccontato di una leadership saudita che garantisce di volere individuare le responsabilità di quanto accaduto a Khashoggi anche ai vertici del regime, “senza alcuna eccezione”.

 

Allo stesso tempo, alcune caute dichiarazione di Trump e la rivelazione della CNN di lunedì, che i sauditi avrebbero intenzione di assegnare la colpa della morte del 60enne giornalista a un interrogatorio finito male, indicano la delicatezza della situazione e gli scrupoli americani nel forzare la mano al regime di Riyadh.

Le chances di proteggere determinati ambienti di potere sauditi, in sostanza quelli riconducibili a MBS e lo stesso principe ereditario, sembrano però sempre più scarse ogni giorno che passa. Tra martedì e mercoledì i giornali turchi e americani hanno infatti pubblicato dettagli e rivelazioni sulla vicenda Khashoggi che lasciano poco spazio a ricostruzioni studiate a tavolino per salvare la faccia.

 

Un quotidiano turco ha pubblicato alcuni estratti raccapriccianti in forma scritta della registrazione audio delle torture e dell’assassinio del giornalista saudita in possesso dei servizi segreti di Ankara. Un’indagine del New York Times ha invece collegato direttamente a Mohammed bin Salman alcuni dei sospettati dell’operazione Khashoggi all’interno del consolato di Istanbul, le cui identità erano state rivelate dai servizi di sicurezza turchi.

 

La stessa versione dell’interrogatorio sfuggito di mano risulta insostenibile. Anche senza considerare tutti gli aspetti del caso, è impensabile che, come hanno documentato le autorità turche e le telecamere di sorveglianza, il regime saudita abbia avuto la necessità di inviare a Istanbul per un semplice interrogatorio ben 15 persone legate ai servizi di sicurezza, tra cui un esperto di autopsie.

 

Per la risoluzione del caso Khashoggi, ad ogni modo, l’amministrazione Trump non avrà alcuno scrupolo nell’estrarre dall’Arabia Saudita i maggiori vantaggi possibili per i propri interessi economici e strategici. La prima conseguenza da attendersi nel caso la crisi venga superata relativamente senza scosse è ad esempio un impulso all’acquisto di armi americane da parte saudita. A questo proposito, non può essere considerata una coincidenza la notizia del versamento di 100 milioni di dollari da parte di Riyadh al governo USA in concomitanza con la visita di Pompeo come contributo per la “stabilizzazione” della Siria.

 

Anche l’altro attore coinvolto nella vicenda, ovvero il governo di Ankara, ha tutta l’intenzione di approfittare dell’operazione Khashoggi, sia in termini economici sia di influenza nel mondo musulmano e in merito alla situazione nel teatro di guerra siriano. Se, d’altra parte, la Turchia ha innescato lo scandalo attorno al giornalista saudita e ha fornito le prove di quanto accaduto, dall’altro Erdogan ha accettato un’indagine congiunta con Riyadh e ha ostentato toni tutto sommato non troppo aggressivi, forse proprio per lasciare aperto uno spiraglio per un accordo favorevole con la monarchia sunnita.

 

Mentre infine i media e i governi di mezzo mondo sono concentrati sul caso Khashoggi, un altro crimine ben più grave del regime saudita è stato ricordato dalle Nazioni Unite questa settimana tra l’indifferenza generale. Il programma alimentare dell’ONU ha pubblicato cioè un rapporto sull’aggravamento della crisi umanitaria in Yemen, oggetto dell’aggressione militare di Arabia Saudita ed Emirati Arabi, con la collaborazione americana, fin dal 2015.

 

Nel paese devastato dal conflitto, il rischio carestia è stato allargato a oltre 14 milioni di persone, di cui, secondo la coordinatrice ONU degli aiuti umanitari, Lise Grande, centinaia di migliaia o qualche milione potrebbero non sopravvivere nei prossimi mesi. L’emergenza assoluta in cui si trova la popolazione dello Yemen è dovuta alla distruzione sistematica delle infrastrutture civili e industriali da parte dei bombardamenti sauditi, a cui va aggiunto il blocco navale imposto ufficialmente per impedire i rifornimenti di armi dall’Iran ai “ribelli” Houthis sciiti.

 

Questa guerra criminale procede da oltre tre anni e, così come le repressioni e le esecuzioni di massa sul fronte interno all’Arabia Saudita, non ha hai provocato nemmeno lontanamente l’indignazione della stampa ufficiale e dei politici americani, oggi impegnati a chiedere, per ragioni che nulla hanno a che vedere con questioni umanitarie, sanzioni e provvedimenti adeguati in risposta al sempre più probabile barbaro assassinio di Jamal Khashoggi.

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