La rete del welfare britannico, che per decenni ha garantito una relativa equità nella gestione e nel contenimento delle situazioni di marginalità sociale, ha lasciato il posto ormai da svariati anni a uno scenario che un recente rapporto delle Nazioni Unite ha definito impietosamente di “grande sofferenza” inflitta alle fasce più deboli della popolazione.

 

A sostenerlo è stato il relatore ONU sulla povertà estrema e sui diritti umani, Philip Alston, in una recente conferenza stampa in cui ha presentato le conclusioni di un’indagine sul campo tra Inghilterra, Scozia e Irlanda del Nord. Il quadro che ne è uscito è quello di un paese che, nonostante risulti essere la quinta potenza economica del pianeta, presenta livelli di povertà inquietanti e un continuo sfaldamento del tessuto sociale a causa di quasi un decennio di deliberate e durissime politiche di austerity.

 

 

La stessa necessità, sentita da qualche anno dal consiglio per i diritti umani dell’ONU di condurre ricerche e stilare rapporti sulla povertà estrema in paesi ufficialmente ricchi e avanzati, testimonia della guerra in corso alle classi più disagiate per mano dei governi occidentali. In precedenza, l’attenzione di simili studi era infatti limitata a paesi del terzo mondo o “in via di sviluppo”. Nel 2017, un rapporto dello stesso Alston aveva interessato gli Stati Uniti, dove i risultati, assieme alla reazione stizzita dei politici, avevano in larga misura anticipato quelli relativi al Regno Unito.

 

Pur venendo da una fonte ufficiale come le Nazioni Unite, le considerazioni di Alston sono apparse gravi e inequivocabili nell’attribuire la responsabilità della situazione odierna alle politiche governative. Il relatore ONU ha parlato soprattutto di iniziative “deliberate, punitive, meschine e insensibili”, ispirate a una “radicale” agenda politica di “ingegneria sociale”.

 

Gli ultimi governi britannici hanno cioè implementato “cambiamenti rivoluzionari del sistema che garantiva livelli minimi di equità e giustizia sociale”, così come dei “valori che ne erano alla base”, smantellando “gli elementi cruciali del contratto sociale [welfare] del dopoguerra”.

 

Basandosi sui dati di autorevoli istituti di ricerca, lo studio dell’ONU afferma che un quinto della popolazione del Regno Unito, cioè 14 milioni di persone, vive in condizioni di povertà. In quattro milioni sopravvivono con redditi al di sotto del 50% della soglia di povertà ufficiale, mentre ben 1,5 milioni rientrano nella categoria degli indigenti, ovvero nemmeno in grado di permettersi beni essenziali come cibo e alloggio. La povertà infantile è poi a livelli “sconvolgenti” e tra il 2015 e il 2022 potrebbe aumentare significativamente fino a toccare quota 40%.

 

Secondo gli stessi dati del governo, gli stanziamenti destinati alle amministrazioni locali britanniche sono stati dimezzati negli ultimi sette anni, provocando la chiusura di oltre 500 centri di assistenza ai minori, quasi 350 biblioteche e molte altre strutture pubbliche. Sul fronte abitativo gli scenari sono ugualmente drammatici. Il numero dei senzatetto è salito del 60% dal 2010 e ci sono 1,2 milioni di persone in attesa di un alloggio a fronte di pochissime strutture di edilizia popolare costruite ogni anno.

 

Alston ha avuto modo di intervistare numerose persone costrette a vivere con le briciole del welfare britannico, documentando, tra l’altro, lunghissime code ai banchi alimentari, passati nel Regno Unito da 29 nel 2012 ai circa duemila odierni. Tra coloro che chiedono un aiuto per portare cibo in tavola ci sono inoltre sempre più persone che hanno un impiego, come infermieri o insegnanti. 2,5 milioni di cittadini britannici vivono d’altra parte con un reddito superiore di appena il 10% al livello ufficiale di povertà, a rischio cioè di precipitare al di sotto di esso nel caso di un evento o una crisi qualsiasi.

 

Sempre nel descrivere le situazioni con cui è entrato in contatto nel corso della sua ricerca, Alston ha raccontato anche di un motivo ricorrente emerso dalle testimonianze raccolte, legato cioè all’impatto devastante sulla salute mentale delle persone più colpite dallo smantellamento dello stato sociale, costrette spesso a convivere in stato di “paura e solitudine”, quando non a rischio di suicidio.

 

Un attacco esplicito da parte del relatore ONU è stato riservato al cosiddetto “Credito Universale”, vale a dire il sistema partorito dai governi conservatori per unificare le varie voci del welfare e rendere teoricamente più efficace l’assistenza erogata dallo stato. Questo meccanismo è in realtà di natura punitiva, tanto che “nessun altro singolo programma comporta la promozione dell’austerity come il Credito Universale”.

 

Questo sistema prevede una serie di condizioni che hanno effetti spesso rovinosi su quanti ne dovrebbero beneficiare. Il primo è l’attesa minima di cinque settimane tra l’accettazione di una domanda di un qualche sussidio e l’effettivo ricevimento di quest’ultimo. I tempi possono allungarsi talvolta fino a dodici settimane e, per individui già sull’orlo del baratro, questo periodo implica un ulteriore aggravamento della loro condizione, ovvero il crescere di debiti, affitti arretrati e rinunce forzate a cibo, medicinali o riscaldamento.

 

Eventuali violazioni anche trascurabili delle condizioni previste per l’ottenimento del Credito Universale si risolvono inoltre in sanzioni spropositate, spesso di natura “arbitraria”, a cui devono aggiungersi gli “effetti devastanti” dell’esclusione totale dal sistema di welfare per settimane o addirittura mesi.

 

Il dato più grave che esce dallo studio di 24 pagine di Philip Alston è in ogni caso l’accusa, rivolta agli ultimi governi britannici, di avere inflitto austerity e sofferenze alla popolazione in seguito a una “scelta politica” e non per una reale necessità economica. Da ciò deriva un’altra pesante denuncia dell’inviato ONU, quella rivolta ai membri dell’attuale gabinetto conservatore di negare l’evidenza di una situazione disastrosa e di respingere qualsiasi critica allo stravolgimento del welfare britannico operato in questi anni.

 

Per rimarcare l’attitudine del governo di Londra, Alston ha fatto riferimento alla recente decisione di inserire nel bilancio dello stato un nuovo taglio alle tasse per i redditi più elevati piuttosto che utilizzare il denaro destinato a questo scopo per mitigare gli effetti della povertà su milioni di persone.

 

A differenza di quanto viene propagandato, cioè che non ci sono risorse per un welfare equo e inclusivo, Alston sostiene che “ai poveri potrebbe essere risparmiata l’austerity se solo ci fosse la volontà politica di farlo”. Che questa conclusione corrisponda a realtà è confermato dalle colossali differenze di reddito e dalla crescente concentrazione di ricchezza nelle mani di pochissimi super-ricchi, grazie a un processo deliberato da collegare direttamente, anche se non solo, proprio alla costante distruzione dello stato sociale.

 

Deliberate politiche di classe sono dunque alla base dell’imposizione del rigore di questi anni, in Gran Bretagna come altrove, e, nonostante le sofferenze provocate e le pesanti denunce come quella delle Nazioni Unite, esso è destinato a proseguire anche in futuro, quanto meno in assenza di una mobilitazione politica dal basso. A confermarlo sono state anche le reazioni al recente rapporto sulla povertà estrema di una classe politica “disinteressata” agli effetti rovinosi delle politiche sociali messe in atto.

 

Il ministro maggiormente chiamato in causa da Alston è stato quello delle Pensioni e del Lavoro, Amber Rudd, recentemente spostata a questo dicastero dopo le dimissioni del suo predecessore. La Rudd ha non solo rimandato al mittente le accuse del relatore ONU perché di natura “politica”, ma, di fronte alla colossale evidenza presentata, ha riaffermato l’efficacia delle “riforme” del welfare attuate negli ultimi anni.

 

Una portavoce del suo ministero sentita questa settimana dal Guardian, tuttavia, non si è sentita di sollevare alcuna obiezione alla maggior parte dei dati e delle statistiche incluse nel rapporto sulla povertà nel Regno Unito.

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