A seconda del Paese con cui fa affari, la Cina viene definita dall’Ue “rivale sistemico” o “partner strategico”. Questa schizofrenia politico-commerciale è una patologia diffusa in quel di Bruxelles, ma il leader che ne soffre in maniera più evidente è senza dubbio Emmanuel Macron. Dopo aver attaccato l’Italia per la sua adesione alla Via della Seta, il Presidente francese ha accolto a Parigi con tutti gli onori possibili il numero uno cinese Xi Jinping, siglando con lui una serie di accordi molto più ricchi di quelli stretti fra Pechino e Roma.

 

 

Nel dettaglio, Macron e Xi hanno firmato 14 intese sui settori più vari (dal nucleare al navale, dall’aeronautica all’ambiente, passando per energia, aerospazio e perfino arte). La più significativa è un super contratto da oltre 30 miliardi di euro per la vendita di 300 Airbus al gruppo statale China Aviation Supplies Holding. La ciliegina è invece un accordo da 1,2 miliardi per la costruzione di 10 navi portacontainer.

 

Per quanto riguarda l’Italia, il valore potenziale di tutti i nuovi contratti con la Cina non supera quota 20 miliardi. La sproporzione è evidente, ma in Europa non interessa a nessuno. Anzi, il doppiopesismo sui rapporti con Pechino non tarderà a tradursi in azioni concrete. Proprio mentre Macron firmava accordi da decine di miliardi con i cinesi, il tedesco Gunther Oettinger, commissario europeo per il Bilancio, ha ventilato la possibilità di porre il veto Ue sul memorandum tra Roma e Pechino.

 

Uno dei capitoli più allarmanti per il Nord Europa è quello che riguarda i partenariati strategici nei porti di Genova e Trieste, collaborazioni che rischiano di sottrarre una quota significativa di investimenti cinesi ai porti di Rotterdam, Amburgo e Anversa.

 

Tuttavia, la partita complessiva rimane molto più ampia e va ben oltre il ruolo dell’Italia. L’appuntamento decisivo è il vertice previsto fra Ue e Cina il 9 aprile: in attesa di questa scadenza, proseguono i negoziati su un trattato bilaterale in materia d’investimenti. L’obiettivo di Bruxelles è correggere lo squilibrio strutturale nei rapporti con Pechino, visto che ad oggi le aziende cinesi sono libere di operare nei Paesi dell’Unione, mentre le imprese europee non hanno le stesse opportunità in Cina.

 

La trattativa procede a rilento e difficilmente arriverà in porto nel giro di pochi giorni. È per questo che, al di là delle sviolinate di Macron a Xi, Francia e Germania stanno allestendo sottobanco un piano alternativo per mettere la Cina con le spalle al muro.

 

Parigi e Berlino vogliono rispolverare un vecchio progetto della Commissione, la norma “Ipi”, che impedirebbe alle imprese extracomunitarie – cinesi incluse – di prendere parte a gare d’appalto pubbliche in Europa, a meno che i loro Paesi non garantiscano la stessa possibilità alle aziende comunitarie.

 

Ora, se si arrivasse a votare su un’ipotesi del genere, da che parte starebbe l’Italia? Da quella di Francia e Germania, per ricucire gli strappi, o da quella della Cina, per non compromettere l’idillio appena iniziato? La posizione del nostro Paese è a dir poco scomoda, ma il governo gialloverde può ancora sperare che le elezioni europee in arrivo contribuiscano ad archiviare il dossier cinese, o perlomeno a rinviarlo. Un’altra ragione per continuare a fare melina fino al 26 maggio.

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