La pesante sconfitta del partito indipendentista al potere a Taiwan nelle recenti elezioni amministrative potrebbe innescare nei prossimi mesi un certo ricalibramento delle politiche di questo paese nei confronti della Cina. Oltre che una serie di impopolari misure economiche e sociali, il Partito Democratico Progressista (DPP) ha infatti pagato a caro prezzo la decisione in questi ultimi due anni di abbracciare una linea sempre più dura nei rapporti con Pechino, in buona parte ispirata e appoggiata dall’amministrazione Trump.

 

La presidente taiwanese, Tasi Ing-wen, è subito finita sul banco degli imputati dopo la pessima performance del DPP nella giornata di sabato, tanto che dopo la diffusione dei risultati ha rassegnato le proprie dimissioni da leader del suo partito. A beneficiare di questa débacle sono stati i nazionalisti del Kuomintang (KMT) all’opposizione, in grado di assicurarsi svariate amministrazioni cittadine e provinciali precedentemente nelle mani del DPP.

 

 

Nelle 22 principali competizioni elettorali in programma, il KMT se ne é assicurate ben 15, contro le sei dei rivali indipendentisti. Soprattutto, il KMT ha strappato alcuni municipi e contee considerate roccaforti del DPP, mentre ha sfiorato il successo nella corsa a sindaco della capitale, Taipei, dove si è confermato per poche centinaia di voti l’indipendente in carica, Ko Wen-je. Particolarmente grave è stata la batosta rimediata nella città meridionale di Kaoshiung, la seconda di Taiwan per popolazione, nelle mani del DPP dal 1998.

 

A Taiwan le divisioni politiche sono tradizionalmente dettate soprattutto dall’approccio alla Cina più che da questioni ideologiche. Per questa ragione, il voto di sabato scorso, anche se locale, non può non essere letto in un quadro più ampio, oltretutto in un momento segnato da una pericolosa escalation delle tensioni tra Washington e Taipei da una parte e Pechino dall’altra.

 

Dei due principali partiti taiwanesi, il DPP auspica la separazione definitiva dalla madrepatria cinese, nonostante almeno fino a poco tempo fa abbia sempre ostentato nei fatti un atteggiamento pragmatico. Il KMT, fondatore del regime seguito alla sconfitta nella guerra civile contro i comunisti di Mao, si è invece evoluto da tempo in un partito aperto alla collaborazione e al compromesso con Pechino, nell’ottica di una futura riunificazione.

 

Il successo del Kuomintang nel voto del fine settimana apre dunque un periodo complicato per la presidente Tsai a poco più di un anno dalle presidenziali. Da un lato aumenteranno le pressioni dell’opposizione e dello stesso governo cinese per invertire la rotta e ristabilire un qualche dialogo con Pechino. Dall’altro, è probabile che i “falchi” all’interno del suo partito spingeranno per una rottura ancora più netta con la Cina e un allineamento completo agli Stati Uniti e agli interessi di Washington in Asia orientale.

 

In quest’ultimo caso, è facile prevedere un rapido scivolamento verso una delicatissima crisi, vista l’estrema importanza di Taiwan per il governo cinese. Nel 2016, ancora agli albori della presidenza Tsai, Pechino aveva rotto i rapporti con l’amministrazione entrante, denunciando il rifiuto della leader del DPP di riconoscere il principio di “una sola Cina” alla base delle relazioni bilaterali e di escludere una futura dichiarazione di indipendenza dell’isola.

 

La Cina, com’è noto, considera Taiwan parte integrante del proprio territorio, ovvero una sorta di provincia ribelle, destinata prima o poi a essere riunificata con la madrepatria. Ogni minaccia di rottura formale o la decisione di percorrere la strada dell’indipendenza, con o senza aiuti di altri paesi, rischia perciò di scatenare una risposta militare immediata da parte di Pechino.

 

Ad oggi, appena 17 paesi riconoscono diplomaticamente Taiwan, mentre in pratica il resto del mondo, inclusi gli Stati Uniti, hanno accettato il concetto di “una sola Cina” sostenuto da Pechino e non hanno quindi rapporti, almeno a livello ufficiale, con il governo di Taipei. Washington, in realtà, continua a essere il sostenitore numero uno di Taiwan, a cui garantisce armi e appoggio militare.

 

Anzi, dopo l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, l’isola è diventata una delle pedine fondamentali della strategia anti-cinese degli Stati Uniti. Facendo leva sulle inclinazioni indipendentiste della presidente Tsai e del suo partito, il presidente repubblicano ha preso svariate decisioni con un preciso intento provocatorio, la prima delle quali all’indomani della sua elezione a fine 2016. In quell’occasione, Trump accettò una telefonata di congratulazioni della presidente Tsai, contravvenendo al principio non scritto di astenersi da contatti diretti tra i leader di USA e Taiwan.

 

In seguito, Trump avrebbe più volte suscitato le ire di Pechino con altre iniziative simili. Tra di esse vanno ricordate l’approvazione, nel giugno 2017 e nel settembre di quest’anno, della vendita di armi a Taiwan per svariate centinaia di milioni di dollari e un provvedimento di legge che promuove i contatti tra diplomatici ed esponenti di governo dei due paesi. Più recentemente e per la seconda volta nel 2018, in parallelo all’intensificarsi della guerra dei dazi e all’innalzamento dei toni contro la “minaccia” cinese, la Casa Bianca ha poi autorizzato operazioni navali di pattugliamento nello stretto di Taiwan, scatenando la comprensibile reazione stizzita del governo di Pechino.

 

In questo quadro, appare chiaro come il voto a favore del Kuomintang sia un rifiuto delle politiche di muro contro muro con la Cina, da cui gli elettori taiwanesi deducono correttamente due possibili conseguenze non esattamente incoraggianti, cioè un conflitto armato e pesanti contraccolpi economici. Mentre proprio il KMT aveva incassato una sonora sconfitta alle urne nel 2014 e, ancora, nelle presidenziali del 2016, con l’appesantirsi del clima internazionale e il concretizzarsi del rischio di guerra, il voto del fine settimana ha espresso la richiesta di un riequilibrio degli orientamenti di politica estera e del ritorno a una certa distensione dei rapporti con Pechino.

 

Che il messaggio fosse destinato direttamente alla presidente Tsai e al DPP è testimoniato anche dalla bocciatura dei due referendum più significativi tra i dieci presentati agli elettori assieme alle schede per il rinnovo delle amministrazioni locali. In entrambi i casi il governo è stato infatti battuto, sia sulla legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso sia sull’uso del nome “Taiwan” invece di quello concordato con Pechino – “Chinese Taipei” – per la squadra olimpica da inviare ai giochi di Tokyo del 2020.

 

La questione cinese si è in ogni caso sovrapposta ad altre che hanno complessivamente contribuito in maniera decisiva alla sconfitta del DPP. In primo luogo, l’amministrazione della presidente Tsai Ing-wen è stata punita per le sue politiche economiche di orientamento liberista che, oltretutto, hanno fallito nel dare a Taiwan la scossa promessa e nel contenere le crescenti disuguaglianze sociali. Profondamente impopolare è stata soprattutto la “riforma” delle pensioni dei dipendenti del settore pubblico, tradizionale serbatoio di voti del Kuomintang.

 

La dimensione strategica più ampia è comunque quella più rilevante per quanto riguarda il voto locale del fine settimana a Taiwan. La stessa presidente Tsai nelle ultime settimane di campagna elettorale aveva d’altronde agitato lo spettro di una possibile annessione dell’isola da parte di Pechino, nonché cercato di tracciare una netta linea divisoria tra il suo partito e quelli “filo-cinesi”, bollati come una vera e propria minaccia per la democrazia.

 

La sua amministrazione ha in altri termini sopravvalutato sia la disposizione degli elettori, senza dubbio in larga misura ancora sospettosi verso la Cina ma allo stesso tempo consapevoli dei pericoli di una dichiarazione di indipendenza, sia il peso e la popolarità del rafforzamento della partnership con gli Stati Uniti.

 

L’esito del voto offre perciò a Pechino la possibilità di tornare ad avere interlocutori politici a Taiwan e di contrastare più efficacemente la campagna americana condotta sull’isola. D’altro canto, è probabile che da Washington si raddoppieranno gli sforzi per salvaguardare gli investimenti fatti su Taiwan in termini strategici, con l’obiettivo di mantenere questo paese nel fronte anticinese in fase di faticoso assemblamento nel continente asiatico.

 

Il tutto in attesa delle fondamentali presidenziali del 2020, attorno alle quali potrebbe giocarsi il futuro delle relazioni tra le due sponde dello stretto di Taiwan e della stessa stabilità di un Estremo Oriente sempre più invischiato nella competizione tra Washington e Pechino.

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