Attualità

Un vescovo del popolo

Vincenzo D'Avanzo
Mons. Giuseppe Ruotolo, attorno a cui si sono riuniti personaggi del calibro di mons. Tonino Bello e di mons. Giuseppe Di Donna
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É sempre l’ultima pagina che rivela il senso di un libro. Il ladrone che guarda negli occhi il Cristo morente è l’unico uomo di cui sappiamo con certezza che è in Paradiso.

Era il 22 novembre 1968, a una settimana dal 70° compleanno, quando un anziano vescovo lasciava i paramenti pontificali per indossare il saio bianco caratteristico dei “novizi”. Ricominciava una vita “nuova”: il novizio è colui che si prepara alla vita monastica. Nel caso nostro il noviziato di mons. Giuseppe Ruotolo era la preparazione all’incontro con il Padre. Il silenzio irrobustito dalla preghiera caratterizza l’attesa. Quel Vescovo non avrà il tempo di diventare professo ma sicuramente avrà utilizzato il tempo per prepararsi al dies natalis (il giorno della rinascita).

Quando un ministro di Dio va in pensione non termina il suo ministero, cambia soltanto volto. Il fatto che nella tradizione della Chiesa la gerarchia abbia una forma monarchica ha due ragioni: il sacerdote è tale in eterno (il sacramento è inamovibile) e la loro ragion d’essere è nel mandato del Fondatore, “su questa pietra fonderò la mia Chiesa”. Il Concilio Vaticano II, adeguando l’Istituzione alle mutate condizioni di vita, previde la possibilità che si potesse smettere il ministero di responsabilità per continuare quello più intenso di supporto spirituale e di collaborazione nei limiti delle forze fisiche. L’introduzione di questo nuovo elemento organizzativo della Chiesa (che ha avuto il suo momento topico nella rinuncia di Benedetto XVI) fu una delle principali iniziative conciliari del vescovo andriese mons. Giuseppe Ruotolo, che ora torna a spiegarlo a un altro novizio, questa volta molto più giovane, che ha incontrato nella prima passeggiata nel chiostro del monastero cistercense sito a Roma nei pressi del luogo dove fu martirizzato san Paolo nel 67 d.C.: una comunità di monaci di stretta osservanza (chiamati trappisti).

Il chiostro quadrato del convento serviva soprattutto per passeggiare leggendo sottovoce la Bibbia o altri libri edificanti: questa modalità di lettura fa sì che le parole non solo siano viste ma anche udite. Se aggiungiamo il camminare e il profumo del giardino centrale ci rendiamo conto che tutto il corpo è coinvolto e quindi la parola penetra profondamente.

Il giovane novizio, ancora alla ricerca della sua vocazione, si accostò timidamente all’anziano novizio, che, pur con il povero saio, evidenziava nell’incedere un andamento solenne, per chiedergli quali fossero le ragioni di una scelta così straordinaria. L’anziano novizio spiegò che egli aveva studiato molto la storia e in particolare quella della sua città (aveva scritto il volume “Il volto antico di Andria fidelis”) e proprio analizzando le vicende storiche di Andria si era imbattuto, rimanendone ammirato, nei monaci basiliani che occuparono le grotte intorno alla città vivendo in solitudine e povertà la loro fede religiosa e poi era rimasto affascinato dalla figura di Francesco II del Balzo che anziano (non vecchio, aveva 62 anni) lasciò il mondo del potere e dei privilegi per diventare terziario domenicano. Aveva capito che quello che si avvicinava era l’incontro più importante della sua vita. Anche Gesù si rifugiò nel silenzio del deserto prima di affrontare la missione della sua vita, concluse mons. Ruotolo.

A questo punto il vescovo-novizio raccontò le sue peripezie dalla nascita (1898) in una famiglia operosa ma anche molto religiosa, fino alla scelta di farsi trappista, scelta preparata per tempo perché proprio in quel convento egli si rifugiava tutte le volte che era a Roma. “Le mie origini sono umili: i miei genitori sono piccoli proprietari terrieri che hanno fatto sacrifici per mantenermi agli studi” (dal testamento spirituale). E, aggiunse, quando una famiglia ti insegna che gli altri ti appartengono si impara a vivere meglio. E raccontò di quando fu chiamato a fare il parroco della chiesa di san Nicola in Andria nel centro storico. Quartiere povero e degradato dove ogni giorno il problema più importante era soccorrere le necessità degli altri. Eppure le pene maggiori le ebbe dai canonici che litigavano continuamente tra loro. Per fortuna i Ruotolo avevano un villino fuori città e quando le situazioni erano più difficili il prevosto Ruotolo (il primo dei canonici) avvisava la sorella di preparare in campagna qualcosa da mangiare e lì portava i canonici. Se dividi il pane condividi le idee e anche i propositi.

Il giovane novizio chiosò: che bella la famiglia!

E il Vescovo riprese: la famiglia è stata all’origine della mia vocazione (il narratore ricorda un altro vescovo Riccardo e un altro sacerdote felicemente vivente don Peppino e un suo coetaneo in seminario, Vincenzo, morto prematuramente). Se non c’è la terra adatta la vocazione non cresce. Appena sono andato a Ugento come vescovo mi sono reso conto della dispersione della popolazione (tanti piccoli comuni) dove la famiglia era punto di riferimento sociale. Allora io volli che ogni parrocchia avesse la sua scuola materna che era un modo per educare i bambini ma anche lo strumento attraverso il quale i sacerdoti potevano raggiungere tutte le famiglie. La scuole erano anche il luogo dove le famiglie si conoscevano tra loro e si preoccupavano reciprocamente dei problemi comuni.

Il novizio si fece ardito: come mai è diventato vescovo così giovane?

Il novizio Ruotolo sorrise bonario. Noi programmiamo le nostre cose, ma i fili della storia non sono in mano nostra. Quando ero parroco di san Nicola mi accorsi che la chiesa aveva bisogno urgente di essere ristrutturata. Allora chiamai l’ing. Genco per dirigere i lavori. L’ingegnere si mise all’opera e un giorno si accorse che in una parete verso l’ingresso si sentiva un vuoto. Mi chiese se poteva vedere di che si trattava. Quale fu la nostra sorpresa nello scoprire che era stata murata una piccola nicchia che conteneva una mitra (copricapo vescovile nelle cerimonie solenni) molto bella e finemente lavorata! Superato lo stupore l’ingegnere mi disse di conservarla perché poteva essere utile. A 39 anni in effetti mi servì: il papa mi chiamò a fare il vescovo di Ugento, dove sono rimasto per 31 anni fino a quando ho deciso di ritirarmi qui. Mi sono trovato così bene in mezzo a quella gente semplice che quando mi chiesero di trasferirmi a Lecce io rifiutai. E quando verrà la mia ora, lì voglio tornare.

Però, disse il novizio, la miseria, la guerra, le malattie allontanano gli uomini dalla Chiesa.

Si, è vero, rispose il novizio vescovo. Ma noi sacerdoti abbiamo un’arma segreta: la preghiera. La zona di Ugento, ma anche quella di Andria, non hanno vissuto direttamente la guerra ma ne hanno pagato le conseguenze come tutti. Finita la guerra mi resi conto che la Chiesa doveva occuparsi di questi problemi sociali. Pregai molto lo Spirito Santo perché mi illuminasse. Avevo allora un giovane molto pio ma anche attivo. Lo convinsi ad andare a studiare ad Ivrea nel seminario dell’Onarmo, che era una organizzazione di carattere sociale. Un giorno mi telefona il vescovo di Ivrea, mons. Bettazzi, che mi rimprovera per avergli mandato un prete ribelle. Io gli risposi che ero felice di questo. Quel prete, quando tornò a Ugento, rivoluzionò la pastorale sociale e io fui contento di vedere tanti uomini in chiesa. (Il narratore fa memoria che quel prete ha un nome che tutti conosciamo: don Tonino Bello. Anche Andria visse la stessa situazione nel dopo guerra con mons. Di Donna e don Riccardo Zingaro. Siccome il giovane vescovo di Ugento veniva spesso in famiglia e si recava a salutare il vescovo è presumibile che lo Spirito santo abbia agito alla stessa maniera).

Il giovane novizio chiese a questo punto se anche oggi servono persone che facciano da punto di riferimento per i tanti sbandati che sono in circolazione.

Mons. Ruotolo si rabbuiò, si sedette su una pietra del chiostro e raccontò: Alla fine della seconda guerra mondiale noi scoprimmo orrori senza fine, sciagure senza nome. Sembrava che una maledizione si fosse abbattuta sulla umanità, aggravata dalla minaccia del marxismo incombente, il cui anelito alla giustizia sociale era bacato dalla predicazione dell’odio. Allora la Chiesa si impegnò a fondo sullo stesso terreno creando strutture sociali, a Ugento fondai subito le Acli, per venire incontro ai poveri e diseredati. Fu allora che scrissi: sappiano i ricchi che non è sufficiente l’elemosina all’adempimento del loro dovere. Molti capirono il messaggio e questo rese possibile la soluzione di tanti problemi e, soprattutto, la ricostruzione del Paese. I leaders servono ma solo se sono capaci di testimoniare le loro idee.

Il novizio rimase stupito dal racconto e soprattutto dal calore con il quale il vescovo Ruotolo si era aperto ad uno sconosciuto. I due anni trascorsi alle Tre fontane a Roma saranno dedicati alla preghiera, alla lettura dei testi sacri. Continuerà tuttavia a studiare la storia, la sua grande passione alla ricerca del percorso degli uomini.

“Piccolo di statura, aveva nel portamento una maestà regale… Sembrava nato per essere sacerdos et pontifex… Quando celebrava sapeva condurre come nessun altro alle soglie del mistero, e ti lasciava lì, con il corpo all’interno del tempio, ma con l’anima in preda allo stupore e assorta nella contemplazione delle cose di lassù”. “Aiutava i poveri con discrezione salvandone sempre la dignità”. É mons. Bello a tratteggiare il suo vescovo, mons. Ruotolo. Un ritratto che si adatta alla perfezione anche a mons. Di Donna: ora et labora.

Mons. Giuseppe Ruotolo morì a Roma il 13 giugno del 1970. La norma conventuale prevedeva la sepoltura nello stesso convento. I familiari riuscirono a convincere il superiore a lasciar partire il cadavere perché il vescovo era ancora novizio. Il trasferimento in Andria coincise con un diluvio su Roma, tanto che il carro funebre sbagliando a prendere l’autostrada fu costretto a ripercorrere il raccordo. La circostanza diede modo all’umile novizio di riabbracciare per l’ultima volta la città dei suoi studi, della sua Chiesa e del suo silenzio. Dopo le solenni esequie in Andria fu tumulato in città in attesa che Ugento predisponesse la tomba e il monumento funebre. La traslazione avvenne l’anno successivo.

PS: ho voluto proporre solo delle suggestioni su una figura che molto opportunamente viene ricordata anche con la intitolazione di una strada, ma che avrà bisogno di approfondimenti anche per il prezioso contributo offerto alla ricerca storica della nostra città. Un grazie a don Peppino Ruotolo per la collaborazione.

domenica 11 Marzo 2018

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Sandro ferri
Sandro ferri
6 anni fa

Francesco del balzo mori a 72 anni nel 1482.