Lo scrittore libico, premio Pulitzer nel 2017 con il suo romanzo "Il ritorno", parte dal mix culturale che si innesta nell'epoca delle migrazioni, soprattutto nel Mediterraneo, e lo fa da una prospettiva filosofica. "La questione della integrazione - spega Matar - non è mai stata così importante come oggi, perché siamo nel momento della storia con il maggior numero di persone che si muovono, e questo a causa delle guerre, dei problemi ambientali ma anche per scelta personale".
Un momento storico in cui, quindi, vincono le società permeabili: "Pensiamoci in termini fisici - dice Matar - hai una superfice che per la sua composizione non permette alla materia di essere assorbita. Tutto resta in superficie. Ma le superfici che ci affascinano di più sono quelle che assorbono la luce o le sostanze e lo stesso si può dire per le società: quelle che sono più agili e assorbenti delle influenze esterne, sono migliori". Partire, muoversi, ma anche tornare. E' qui che Matar sposta invece l'obiettivo sul suo romanzo e sulla pulsione di chi parte a cedere alla nostalgia, per quello che Matar chiama "bisogno di riconoscimento". "Il bisogno del ritorno - spiega Matar - è connesso alla necessità del riconoscimento, all'essere identificati. C'è un dipinto di Giovanni di Paolo, "Paradiso", in cui il pittore immagina come sarà il ritrovarsi nell'aldilà e lo immagina come un ricongiungimento a due, a coppie, come se le anime danzassero e ognuna tenesse l'altra per mano e si guardassero in viso. Il ricongiungimento comporta quindi il fatto di essere riconosciuti e, di converso, l'inferno è il fatto di non essere riconosciuti dalle persone che si amano".
Un bisogno legato all'anima, nella visione di Matar, e che parte dalla paura di essere soli con se stessi. Un problema esistenziale che coinvolge anche i migranti: "Noi siamo un mistero per noi stessi - spiega - e quindi vogliamo essere riconosciuti dagli altri. Niente terrorizza più della domanda: ti riconosci? Questo problema per alcune categorie di persone come i migranti non è filosofico ma concreto. Gli immigrati e gli esiliati devono continuamente fare azioni di traduzione, su una lingua straniera, su costumi e modi di vivere altri. E se sei davvero da solo, in esilio, puoi perdere la conoscenza di te stesso di capire chi sei. E' come cvon quelle forme di tortura in cui vieni rinchiuso per giorni in una stanza vuota. Il bisogno di essere riconosciuti è praticamente uguale al desiderio di esistere". (ANSAmed).
Riproduzione riservata © Copyright ANSA