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Tartaglia: “Trattativa ‘opere d’arte’ parallela a quella con Vito Ciancimino”
di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
"C'è stato un secondo piano di trattativa, che è passato alla storia, per semplificazione, come 'Seconda trattativa' o 'trattativa delle opere d'arte'. E' un canale di trattativa assolutamente sincronico, perfettamente coincidente con le tappe temporali, con gli eventi della trattativa principale". Così il pm Roberto Tartaglia (in foto), riprende la requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e mafia, in corso all’aula bunker di Palermo, dopo la fine dell'intervento del pm Nino Di Matteo. "Quando la trattativa con Vito Ciancimino va avanti - dice Tartaglia - quella delle opere d'arte si ferma, mentre quando quella principale rallenta e Riina dice: 'Ci vorrebbe un altro colpettino', quella delle opera d'arte va avanti, fino alla conclusione che è sovrapponibile alla conclusione dell'altra". E aggiunge: "Questo secondo piano di trattativa non lo ricostruiamo con Vito Ciancimino o i documenti, ma facendo riferimento all'analisi della deposizione di Paolo Bellini (ex esponente di Avanguardia nazionale, vicino al mondo dell'eversione nera), di testi di polizia giudiziaria su quest’ultimo, ma anche del maresciallo Tempesta, amico e uomo di Mario Mori, e delle dichiarazioni di quest’ultimo che arriva a dire che Tempesta ha mentito”.
Dunque Bellini, secondo l’accusa, sarebbe stato protagonista di una sorta di trattativa parallela tra mafia ed esponenti dei carabinieri finalizzata al recupero delle opere artistiche rubate.
“Questo secondo piano di trattativa - prosegue Tartaglia - ci aiuta a capire quale era il vero obiettivo della trattativa iniziata dal Ros con Vito Ciancimino, una trattativa che non aveva niente a che vedere con un’operazione di polizia giudiziaria”. Secondo il magistrato, anche su Bellini “o lo si trattava come confidente e si faceva l’attività della polizia giudiziaria con un confidente o, se non ci si fidava del confidente, la polizia giudiziaria fa l’indagine su quello che dice il confidente. Mori, pur avendo i resoconti, non fa né l’uno né l’altro”.

Il rapporto con Gioè
Ricostruendo la genesi del rapporto tra Bellini (a lungo coperto dal falso nominativo di Roberto Da Silva) ed il boss Antonino Gioè, l’accusa conferma che la ricostruzione delle tappe, pur restando alcune ombre, è “provata”. Se tra i buchi neri resta il motivo che portò Bellini ad essere presente ad Enna nel medesimo periodo in cui vi furono diverse riunioni di Cosa nostra ciò che è certo è che Bellini, dopo le strage di Capaci o di via d’Amelio, fa a Tempesta una proposta: quella di infiltrarsi in Cosa nostra sfruttando la già avviata interlocuzione sulle opere d’arte rubate.
“Ad agosto '92 - prosegue il pm nella ricostruzione - Bellini e Tempesta si vedono in un'area di servizio a Roma e parlano di infiltrarsi in Cosa nostra e Mori dice al maresciallo ‘vai avanti tieni il canale aperto’. Tempesta dirà a Bellini che ‘sarà Mori a mandarti uno dei suoi, probabilmente Ultimo’”.
L’interlocuzione prosegue tanto che Bellini consegna a Gioè una busta gialla con le foto di alcune opere d’arte rubate a Modena a cui, tempo dopo, Cosa nostra risponderà con un biglietto con cinque nomi, tra cui quello di Brusca, Gambino e Pullarà, chiedendo “arresti domiciliari o ospedalieri per questi”.
“Bellini racconta anche che alla fine dell’estate del ’92 Gioè gli rivolge una domanda: ‘se vi svegliaste senza la torre di Pisa?’. Bellini afferma di averlo detto subito a Tempesta che lo dice a Mori”.

Lo stop
“Nell’ottobre-novembre ’92 - aggiunge il pm - le cose cambiano sui due fronti. Bellini sente di essere stato mollato e solo in quel momento lo va a trovare a casa un carabiniere che si presenta come appartenente al Ros. Questi si identifica con il nome di copertura che lui aveva usato per parlare con Tempesta (Aquila selvaggia) e gli dice di fermarsi, di non andare più in Sicilia e di non parlare più con nessuno, nemmeno con Tempesta, neanche di quella visita perché ‘hanno in corso una cosa più importante’”. Parole che si incastrano con quelle che Gioè avrebbe detto a Bellini (“I mafiosi non sono più interessati agli scambi di opere d’arte perché ‘avevano un’altra trattativa in corso che arrivava ai piani più alti del governo. Un’altra trattativa con ben altri ambizioni, canali e posta in palio’").
Tartaglia rileva dunque i riscontri alla testimonianza di Bellini come la certificazione di “almeno 30 viaggi in Sicilia di Bellini” e le dichiarazioni dei pentiti Mario Santo Di Matteo, Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca. Proprio quest’ultimo, in aula, ha confermato di aver ascoltato i dialoghi tra Gioè e Bellini, all’insaputa di quest’ultimo, dal piano superiore del luogo in cui si incontrarono.
“Brusca - ricorda il pm rivolgendosi alla Corte - ha detto di aver visto la busta gialla e che Riina in persona gli aveva dato l’autorizzazione a proseguire quel contatto dicendo che quello era il momento in cui erano state ritenute irricevibili le richieste del papello. Poi, dopo l’estate del ’92 Riina gli dice di chiudere il canale con Bellini perché non serviva più”.
Il sostituto procuratore palermitano ricorda anche l’idea di attacco ai monumenti che precede la strage di via dei Georgofili.
Il primo è il ritrovamento del proiettile al giardino Boboli, ottobre 1992. Il secondo fatto arriva dalla vicenda Annacondia con quest’ultimo che ha dichiarato di aver detto fin dal gennaio ’93, dall’inizio della sua collaborazione, della notizia avuta in carcere da un napoletano in contatto con Cosa nostra che bisognava passare ai monumenti per ricattare lo stato sul 41 bis.
Non di secondo piano, ovviamente, la testimonianza del maresciallo Tempesta che conferma di aver parlato con Mori di Bellini, di aver riportato le notizie sulla torre di Pisa, sulle siringhe con il sangue infettato nella spiaggia di Rimini e così via. “Notizie - afferma con forza il pm - che iniziavano ad essere vere a partire dal ritrovamento del proiettile di Boboli. Inoltre Tempesta conferma di aver consegnato i cinque nomi dei mafiosi a Mori, così come le opere rubate che i siciliani avevano offerto come contropartita nel momento che quelle di Modena non era possibile recuperarle”.
Mori, in udienza il 20 giugno del 2014, ha confermato che Tempesta gli parlò di Bellini ma in maniera vaga, inserito in un discorso generico, ma ha negato il resto. “Non si capisce - dice il pm - perché Tempesta avrebbe dovuto mentire su tutto. E’ palese che a mentire è Mori. Che, se confermasse quanto detto Tempesta, si troverebbe di fronte all’ennesima strana omissione trovata nell’operare di Mori. Quella proposta di infiltrazione, che era allettante per una attività di indagine, fu lasciata cadere senza un tentativo di svolgere attività di indagine. Non vi fu mai un pedinamento per vedere con chi si incontrava Bellini e ciò con Gioè latitante. Mai in 30 volte è stata disposta una banale attività di pedinamento su Bellini. Era evidentemente impegnato Mori sull’altra trattativa”.
“Se non hanno creduto Bellini - aggiunge - perché non lo hanno rivalutato dopo il ritrovamento di Boboli? Nella sentenza di Firenze troviamo l’informazione che dieci giorni dopo che Bellini dice quelle cose trovano una bomba a palazzo Pitti e la rivendica la Falange Armata. Sapremo poi che era stato il boss Santo Mazzei. Perché non si è detto 'Bellini sta dicendo cose vere' o 'non abbiamo più bisogno di andare da Violante e da Martelli o da chissà chi altro? Anche dopo Boboli, se proprio non ci credi, hai l’obbligo di andare da un magistrato per dirgli di Bellini. Come si fa a giustificare questa cosa? La risposta è una: che la sola possibilità che Bellini si infiltrasse in Cosa nostra era vista da tutti come una possibilità estremamente pericolosa che avrebbe fatto saltare la trattativa in corso'”.

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